Vi ricordate i tempi i cui i genitori consigliavano ai ragazzi di ‘lavorare in banca’ o ai più ambiziosi di fare il manager in azienda, e lasciare perdere velleità sociali? Io ricordo molto bene le affettuose perplessità o i risolini di sufficienza di chi aveva fatto una ‘scelta sicura’ a fronte della ‘follia’ mia e di altri matti come me. Paradossi della storia, quel tempo è finito e la situazione si è ribaltata: ora certamente è lavorare nel nonprofit che è più sicuro dal punto di vista occupazionale.

‘Bancari’ sempre più ridotti, manager ‘for profit’ cinquantenni ‘esuberanti’ sia in termini fisici che occupazionali in tutto l’Occidente.

Le alternative non brillano in Europa: per i giovani italiani, spagnoli, spagnoli, greci, portoghesi, andare a fare i camerieri in una Londra sempre più invivibile ed arrogante o nella fredda Berlino, non è certo un gran futuro. Sulle ‘start up’ – ne conosco tante, permettetemi di esprimere una certa prudenza. La GIG economy è il futuro, ma per ora è molto discutibile sulla qualità occupazionale. In Google la permanenza mediana di un lavoratore è di 1,1 anno, in Amazon di 1 (fonte: Payscale): prima di proporsi come modelli, farebbero bene a farsi qualche onesta domanda e a tenere di più alla propria brand reputation.

La fine del lavoro “sicuro” e l’emergere di forme nuove per ora non soddisfacenti e non identitarie, può essere vista come una tragedia e con rimpianto. Ma può rappresentare un’opportunità. E per chi?

Per quei giovani fortunati, di profilo internazionale e fiduciosi in sè e nel futuro, che hanno il ‘coraggio di avere un sogno’. Per gli over 40 che hanno ancora vivi i sogni nel cassetto.

Per tutti costoro questa profonda crisi ed il suicidio della sinistra nel mondo sono una opportunità di iniziare senza compromessi e senza “sconti al sistema” una vita piena di senso, andando avanti a testa alta nonostante tutto e difare politica’ su basi diverse e più vere.

‘Lavorare in una Ong’ (nel nonprofit o nel ‘terzo settore’ o nel ‘sociale’) non solo è sempre più il sogno chi desiderata di cambiare il mondo- non solo a chiacchere. E’ un progetto di vita concreto, impegnativo, spesso precario e pieno di contraddizioni, ma sempre fortemente pieno di senso profondo ed identitario. 

Il Censis ne suo rapporto sullo stato del Paese pubblicato il 2 dicembre 2016, cita a titolo di esempio la grande crescita di alcune Ong: dal 2007 Save the Children è cresciuta di oltre il 428%, Emergency del 123% e MSF del 45,9%. Dati che ricordano come in generale tutto il settore nonprofit è da venti anni uno dei principali creatori di occupazione nel mondo, con oltre un milione di occupati (e retribuiti) in Italia ed una % di occupazione che in alcuni paesi europei (come Olanda e Belgio) tocca il 13% sul totale, a fronte di una media EU ed USA di circa il 6-7%.

In una nostra recente ricerca abbiamo anche dato riferimenti ‘in progress’ sulle esigenze del mercato professionale delle Ong. Ci sono ovviamente dei prerequisiti importanti per entrare e per riuscire, una scelta che di certo non si improvvisa. Una scelta che oggi più che mai, è anche politica.

Per chi voglia approfondire i temi del lavoro nelle ONG, oltre ai post su questa testata, veda anche blog4change e il confronto con gli Hrm del settore

Articolo Precedente

Referendum, ora che abbiamo vinto ci occupiamo di chi non arriva a fine mese?

next
Articolo Successivo

Roma, quella guerra tra poveri che racconta un’Italia sconosciuta alle élite

next