Al netto di ogni analisi sulle motivazioni, sulla coerenza, sulla moralità e sul livello culturale degli schieramenti del voto di domenica, concetti di cui si è abusato e che sono stati indegnamente scomodati ad uso e consumo di una campagna referendaria e post referendaria ignobile, il risultato così netto è dovuto a tanti e diversi fattori e separarli analiticamente sarebbe impresa impossibile. Ma alcuni dei tratti che hanno accompagnato questi mille giorni di governo Renzi meritano di essere sollevati.

Ovviamente – e probabilmente è superfluo sottolinearlo –, il primo grande errore è stato quello di personalizzare il voto. Davvero espressione inflazionata. Ma l’errore sta nell’aver, a causa di questa identificazione premier-riforma, distolto l’attenzione del dibattito dal merito della riforma e non nell’aver sopravvalutato il proprio consenso. Si potrà ribattere che il premier aveva ritirato la sua affermazione “se perdo vado a casa”, adottando, anche nei comizi, un registro più improntato alla retorica della burocrazia (termine improprio se riferito all’iter legislativo eppure usato nella campagna senza alcuna remora), ma nei fatti l’operato del governo è rimasto sovrapposto alla riforma.

Mi spiego: ad una personalizzazione dichiarata ad inizio campagna, e poi ritirata nel corso della battaglia, si è sostituita una personalizzazione mascherata. Come? Forse per convenienza dei suoi ministri e dei suoi parlamentari, forse per deliberata strategia poi rivelatasi fallimentare, Matteo Renzi è stato l’unico vero promotore della riforma, nessun altro si è presentato nei dibattiti e nessun altro, se non occasionalmente, ha messo la propria faccia su questo referendum, o almeno non quanto il premier. Al contrario, nel fronte del No, gli sfidanti sono stati tanti, di varia estrazione e varie professioni: questo senza dubbio ha rafforzato l’idea di una votazione pro o contro l’attuale governo. A parole si è trattato, per molti, non per tutti, di votare per una riforma giusta o sbagliata che fosse, ma sotto sotto, il tratto delle matite è stato guidato dalle personali valutazioni sul governo in carica.

Il secondo errore, che in qualche modo è collegato alla sovraesposizione mediatica del Capo del governo, sta nell’aver trascurato la guida del paese, che è rimasto per troppo tempo privo di un timoniere.

I mille giorni di Renzi possono essere guardati secondo due prospettive temporali differenti: il primo Renzi e il secondo Renzi. Il governo Renzi è nato su un’agenda ben precisa che prevedeva tappe predeterminate e rapide che, nel bene e nel male, hanno dettato il ritmo travolgente e per certi versi coinvolgente del 2014. In questa fase il premier ha maturato una rendita di credibilità, presso gli italiani e presso l’Europa, che non è riuscito a far fruttare nella seconda parte del suo percorso a Palazzo Chigi. Fino a metà 2015 il governo si è mosso con una spinta, un motore, che, fra mille polemiche, era senza dubbio riuscito a dare un’idea di movimento al e del Paese. Così non è stato nella seconda parte dei suoi mille giorni in cui, complici varie e spesso colpevoli circostanze, il referendum ha preso il sopravvento sul dibattito politico italiano, assorbendo strada facendo ogni altra questione fin dal giorno dell’approvazione finale della riforma in Parlamento. Si è perso dietro Italicum e referendum, quasi un anno di politica, non essendo riusciti ad alimentare quella spinta iniziale. Non che quel motore fosse tutto rose e fiori, ovviamente. Questa sorta di abbandono è stato senza dubbio percepito dalla popolazione, che ne è stata negativamente influenzata.

Altro fattore va ricercato nel tono dello scontro: aspro, arrogante e orgoglioso. Non ha certamente aiutato liquidare le critiche alla riforma dando dell’ottuso gattopardesco conservatore ad ogni singolo esponente avverso. Non ha aiutato ergersi a baluardo della semplificazione, del cambiamento e della buona politica, come se dall’altra parte fosse stato solamente palude e accozzaglia. Non ha aiutato assumere la parte della identitaria superiorità morale contro tutti gli altri.

Non ha aiutato, infine, l’aver portato avanti la riforma con la forza, senza cercare il dialogo e quindi senza cercare la maggioranza più ampia possibile. Da qui nasce l’uso distorto del referendum, che nasce come strumento oppositivo e non confermativo delle riforme costituzionali. Invece di ricercare la maggioranza dei due terzi, si è preferito scegliere la via più rapida, ma, con il senno di poi, fallimentare. Il referendum, con la dovuta mediazione parlamentare, non si sarebbe mai tenuto e questo, forse, è il più grande rammarico non solo del premier, ma di buona parte della popolazione, che è stata costretta a scegliere fra le regole del gioco e il mazziere, sacrificando quest’ultimo per non rinunciare ad esprimersi sulla carta fondamentale, sacrificando, questo sì, le potenzialità, tante, che il governo Renzi aveva da offrire fin dall’inizio dell’incarico e che sono poi andate scemando nel tempo.

Con le dimissioni si entra di nuovo in campagna elettorale, qualunque sia la scelta del Presidente della Repubblica. In caso di elezioni nel 2017, si sarebbe già in ritardo per la campagna elettorale. Ma se le elezioni fossero nel 2018, quale che sia il governo che guiderà il Paese fino a quel momento, ogni posizione, ogni decisione ed ogni politica dei partiti sarà già improntata al consenso, come del resto è stato tutto questo anno. Ma serve una legge elettorale, si dirà. Vero, ma la discussione sull’Italicum non è stata forse un’enorme campagna sulle preferenze, sulle liste bloccate, sulle soglie e sui premi? Dall’altra parte sarebbe facile rispondere “bastava un sì per evitare tutto questo”, ma sarebbe stato tanto diverso? La storia non si fa con i se e con i ma.

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