Passata la sbornia notturna di giubilo per un risultato che oltrepassa le più rosee previsioni (gli amici sanno che avevo pronosticato una vittoria del No 54 a 46), bisognerebbe iniziare a rendersi conto che il 5 dicembre è un punto di partenza, non di arrivo. E che richiederebbe una riflessione politica di alta qualità; che a oggi non sembra a disposizione. Sia sotto il profilo della responsabilità che dell’innovazione.

Non hanno torto i furbacchioni sbugiardati del Sì a sostenere che la palla è passata ai vincitori della consultazione. Così dovrebbe essere sempre, in democrazia. Ma in questo caso il campo non è unitario, bensì cementato da quello che il filosofo della politica John Rawls chiamava “consenso per sovrapposizione”: un temporaneo trovarsi a compiere un percorso insieme per lasciarsi subito dopo, raggiunta la meta comune.

E questo vale per gli sfasciacarrozze Matteo Salvini e Giorgia Meloni, cui si aggiunge la consustanziale ambiguità di Silvio Berlusconi; visto che l’ex Cavaliere ha mantenuto un atteggiamento bifido quanto la sua lingua, interessato comunque a un nuovo Nazareno, in cui si sarebbe potuta riprendere la manfrina maestro-allievo per negoziare l’inconfessabile con il Blairino venuto da Rignano. Prospettiva spazzata via dal vento tonificante del 4 dicembre.

Ma qualcosa stride anche sul fronte del primo soggetto nel campo del N0: il Movimento 5 Stelle, laddove l’azionista di riferimento Beppe Grillo continua a fare danni. Che altro pensare delle irresponsabili esternazioni di fine campagna elettorale a Torino, con l’apologia della bellezza insita nel perdere? Ossia l’ultimo argomento a cui converrebbe inneggiare; ma che lascia intuire come – tutto sommato – all’ex comico, inventore del mugugno urlato come genere teatrale, una sconfitta di misura sarebbe pure andata bene. Per varie ragioni: ad esempio gli consentiva di continuare a recitare il plot vittimistico che è l’unico di sua conoscenza; o magari sperava di potere andare alle elezioni con un Italicum, confermato referendariamente, che prevede quel ballottaggio a lui tanto caro. Peggio ancora: evitare il rischio – appunto – di doversi accollare le responsabilità di competenza dei vincitori.

Sia come sia, ragioni diverse ma tutte preoccupanti, se si conviene che, immediatamente dopo lo schiaffone al Renzi, viene il momento di ricostruire sopra le macerie. E questo compito se lo può assumere solo il M5S, se i suoi giovani esponenti riusciranno a uscire dalla loro interminabile pubertà politica diventando adulti. E affidabili. In attesa che dalla palude sinistrese emerga un soggetto meno deprimente di questa zattera della Medusa a cui sono abbarbicati naufraghi congeniti e narcisisti inconcludenti.

Perché da oggi non siamo solo all’uscita di scena del rottamatore rottamato e la sua Corte dei Miracoli che parla con l’acca aspirata. Qui c’è da rimettere mano a tutti i pastrocchi creati in base a un’idea infantile di statualità; per cui ciò che conta è il decisionismo, e vanno spazzati via tutti i contrappesi e i controlli predisposti per riequilibrare il mito pericolosissimo dell’uomo solo al comando: la scuola dichiarata “buona” se la presiede un capo imperscrutabile e magari capriccioso/vendicativo, il lavoro che si crea accantonando diritti e mettendosi nelle mani di un ceto imprenditoriale assenteista; i presidi di territorio che raccolgono dati e i corpi intermedi che favoriscono la partecipazione locale, tutta una costruzione di stampo democratico cancellata con un irresponsabile tratto di penna.

Insomma, dopo la tabula rasa del 4 dicembre si apre un’opportunità. Che richiede alta qualità per essere colta. Per cui è meglio smetterla con i brindisi e mettersi all’opera.

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