Tiziano Ferro è tornato a pubblicare un nuovo album. In questa frase c’è un errore. No, non è vero. Non c’è un errore, non state lì a cercarlo, non siamo nella Settimana Enigmistica. Né su un Meme di Facebook. Ma Il mestiere Della Vita, album che esce sul volgere di un anno che si è portato via alcuni tra i più grandi nomi del panorama musicale mondiale e che, al tempo stesso, ha definitivamente chiarito che il livello della nostra musica leggera sta inesorabilmente planando verso il basso, pronto a schiantarsi contro una scogliera, ecco, Il mestiere della Vita di Tiziano Ferro non è un nuovo album. Intendiamoci, la release è 2 dicembre 2016, quindi tecnicamente lo è, ma in realtà, permettetemi di giocare un minimo con le parole (almeno io non ci metterò dentro errori grammaticali intenzionalmente, come vezzo o come cifra, quindi se ne troverete saranno errori veri), in realtà è un album vecchio. Di almeno un paio di anni.

No, questo incipit non funziona. Troppo incasinato. Troppo contorto. Rewind. Ci riprovo.

Il 2 dicembre del 2016 esce il nuovo lavoro di studio di Tiziano Ferro, Il mestiere della Vita. Un album prodotto da Michele Iorfida Canova e anticipato dal singolo Potremmo ritornare, di cui si è parlato tempo addietro. Ecco, partiamo da lì. Nel recensire quel singolo ero stato piuttosto duro, enfatico nel sottolinearne la bruttezza, la totale mancanza di originalità, anzi, la intempestività nel riproporre un cliché che nel frattempo è diventato usurato, superato, una matrice che sembra quel che è, una matrice, appunto. Bene, le canzoni che compongono questo lavoro sono quasi tutte così. Vecchie. Roba già sentita. Già sentita, per altro, non altrove: non si sta ancora una volta cercando chi avrebbe copiato Tiziano Ferro, vezzo anche quello per cui il nostro è piuttosto noto, ma quello che ha ripescato dal suo stesso repertorio. La mossa, si direbbe fossimo nel varietà. Ecco, Tiziano Ferro fa la mossa, qualcosa che sa piacerà al suo pubblico, perché gli è già piaciuto negli anni passati. Quando si dice andare sul sicuro. Ma non basta, e trattandosi di Tiziano Ferro non può bastare. Le canzoni di Il mestiere di vivere sono anche gradevoli, seppur in assenza di un capolavoro come quelli che in passato Tiziano ha sfornato. Chiaro, c’è qualcosa che al capolavoro si avvicina come Il confronto, brano che ce lo mostra in compagnia con una inedita Carmen Consoli, ma anche qui, siamo in piena ballad Tiziano Ferro, roba già sentita mille volte, da lui e non solo da lui.

Ma anche qui, non basta. Perché sentirlo fare il verso a se stesso in chiave R’n’B, a se stesso in chiave marziale, a se stesso in chiave ballad, a se stesso che gioca coi suonini orientaleggianti, a se stesso in chiave mid o up-tempo, insomma, sentire tutto il repertorio tizianoferriano riproposto come fossimo di fronte a una sorta di Bignami di Tiziano Ferro medesimo lascia perplessi. E lascia ancora più perplessi se consideriamo che l’album di Tiziano Ferro presenta due caratteristiche dell’ultimo periodo del suo produttore, Canova, che a sua volta rende questo lavoro meno originale di quanto ci saremmo aspettati. Le due caratteristiche sono le stesse che abbiamo trovato, per dire, nell’ultimo di Francesco Renga e nell’ultimo di Giorgia: grandissimo utilizzo della voce, con più tracce che si inseguono, i bassi messi più in risalto degli alti, ma basi davvero di merda. Roba davvero dozzinale, quasi mai suonata davvero. Ma il punto è un altro. Siamo di fronte, qui, a suoni che abbiamo già sentito. Chiaro, se il problema del nostro pop è sempre questo, siamo derivativi, è vero che qui siamo di fronte a una derivatività più recente, della serie: gli altri propongono suoni di quattro anni fa, qui siamo al 2014 o 2015, quindi qualcosa di più recente, ma sempre di derivatività si tratta. Niente di originale. Prendiamo un esempio concreto, così non ci si potrà dire che restiamo sul vago. The Weeknd. Lui si è imposto, negli ultimi anni, come uno di coloro che hanno contribuito a riscrivere la black music. Uno dice, va beh, ma qui paragoni Paletta a Messi. No, The Weeknd non è Messi, e Ferro non è Paletta. Se la potrebbero anche giocare. Volessero. Invece no, Ferro va sul sicuro. Anche The Weeknd ci va, ma porta a casa un risultato che, nello stesso campo di gioco, bullizza Ferro, lo umilia, lo fa sembrare un nano, quale in realtà Ferro non è.

I suoni scelti dai produttori di The Weeknd nel suo ultimo Starboy non sono poi troppo evoluti rispetto a quelli del precedente Beauty Behind the Madness, ma quantomeno il lavoro fatto è stato di aggiornamento di qualcosa che già era la contemporaneità. Ferro, invece, per andare sul sicuro, non sposta di una virgola il suo suono. Anche nel momento in cui chiama Tormento al suo fianco, siamo in pieno ambito vintage, deja vu al 100%. Niente che stupisca. Mai. Niente che osi. Pappa pronta. Black music, melodie italiane, miscelare, metterci quel tocco cupo di tizianoferrismo. Ci siamo capiti. Per di più pappa pronta ma non la migliore, perché Ferro ha fatto cose molto più ispirate e belle di queste. Non c’è una nuova Sere nere, qui. Non c’è una nuova Non me lo so spiegare. Ma non c’è neanche una nuova Xdono o La differenza tra me e te. Niente capolavori. Roba media. Piacevole, intendiamoci. Non esageratamente piacevole, ma piacevole. Uno dice, ma i testi… No, scusa, ma con questa scusa che Tiziano Ferro fa testi nei quali si riconoscono in tanti non è che possa far passare anche la sbobba. Non è accettabile. Scrivesse un libro di poesie, a questo punto. Queste sono canzoni carucce. Niente di più. Solo che un nuovo album di Tiziano Ferro non può accontentarsi di questo. Di chi è la colpa? Non è dato saperlo. Forse dello stesso Ferro, che evidentemente ha perso un po’ ispirazione, al punto di cercare aiuto in collaboratori non sempre (quasi mai) alla sua altezza passata. Forse di Canova. Nei fatti Il mestiere della Vita è una grande delusione. Un album che fosse uscito dieci anni fa, forse, ci sarebbe anche piaciuto. Forse. Ma che oggi passa in cavalleria. Senza lasciare traccia, se non un po’ di fastidio. Peccato.

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