A Chapecò, fuori dallo stadio Arena Condà, ci sono centinaia di tifosi. Piangono e pregano. Da ore. Da quando le radio e le televisioni di tutto il mondo hanno raccontato la fine di un sogno: la loro Chapecoense non c’è più. L’aereo che trasportava la squadra di calcio brasiliana a Medellin per la finale di Copa Sudamericana si è schiantato. Sono morti quasi tutti: in 48, tra tecnici, giocatori e accompagnatori. A 24 ore da una partita che moltissimi, a Chapecò, avrebbero raccontato per anni ai figli, ai nipoti e a tutti coloro che volevano sapere di quella volta che la loro piccola squadra era arrivata a giocarsi la vittoria del secondo trofeo più importante del continente. Come se il Crotone sfidasse in finale di Europa League una big del pallone europeo: storia degna di un racconto di Osvaldo Soriano. Non sarà così. Perché la Chapecoense quella partita non la giocherà mai. E chissà se mai quel trofeo sarà assegnato. Danilo, Caramelo, Thiego, Filipe Machado, Dener, Ananias, Gil, Josimar, Cleber Santana, Tiago Vieira, Bruno Rangel: i nomi degli undici titolari che a Chapecò hanno fatto la storia ora compaiono nella lista delle 75 vittime del disastro aereo. Senza differenza di ruolo, carriera, età. Come le riserve, che speravano di giocare anche pochi minuti per entrare nella memoria collettiva della città di poco più di 200mila abitanti nel sud del Brasile. Alan Ruschel, Jackson Follmann e Helio Zampier sono sopravvissuti: un miracolo. Altri calciatori, invece, sull’aereo non sono mai saliti: non convocati, per infortunio o scelta tecnica dell’allenatore Caio Junior, anch’egli tra le vittime. Claudio Winck, difensore del Verona fino a marzo scorso, spesso parlava di Italia con Felipe Machado, che giocò nella Salernitana nel 2009-2010: Machado è morto, Winck è negli spogliatoi dell’Arena Condà con l’unico straniero della squadra, l’argentino Alejandro Martinuccio (ex Villarreal), e i compagni brasiliani Neném, Demerson, Marcelo Boeck, Andrei, Hyoran, Nivaldo, Moisés e Rafael Lima. Un fallo subìto, una partita giocata male, un brutto momento di forma: salvi per caso. E pregano. Per i loro ex compagni, i loro ex dirigenti, i parenti di chi non c’è più. Ma che a Chapecò ci sarà per sempre. Perché la finale di Copa Sudamericana contro l’Atletico Nacional di Medellin era la chiusura di un cerchio.

LA STORIA DELLA CHAPE: DALLA QUARTA SERIE ALLA SUDAMERICANA
Basti un dato: nel 2009 la Chapecoense era in quarta serie, i dilettanti italiani. In bacheca solo una manciata di tornei statali. Certo, il club fondato nel 1973 non ha né poteva avere il fascino del Flamengo, del Santos, del San Paolo né i tifosi del Palmeiras e del Corinthians. Però aveva una storia da raccontare. Dopo aver vivacchiato nelle serie minori per anni, nel 2003 aveva addirittura rischiato di scomparire. Il calcio, a bassi livelli, è sopravvivenza e a Chapecò tredici anni fa quel limite era stato superato. Un attimo prima di chiudere i battenti della società, però, un paio di imprenditori locali decisero di collaborare: verde-bianco salvi, inno carioca ancora a palla dagli altoparlanti dell’Arena Condà, che nel 2008 verrà abbattuto e ricostruito. Come se la Chapecoense avesse bisogno di un teatro degno della favola che stava per essere scritta. L’ascesa inarrestabile parte dalla quarta serie. Campionati vinti, tornei di alto livello e nel 2014 le porte dell’olimpo calcistico verdeoro: promozione nella massima serie brasiliana. Nel 2015 la Chapecoense chiude il campionato al 14esimo posto e si spinge fino ai quarti di finale della Sudamericana: la sconfitta con il River Plate brucia, ma non troppo. Anche perché a Chapecò i millonarios perdono 2 a 1: è il risultato più prestigioso del piccolo club. Ma non l’ultimo. La favola supera i confini dello Stato di Santa Catarina e del Brasile. E continua: nell’edizione 2016 della Copa, Cleber Santana e compagni eliminano prima gli argentini dell’Independiente, un club fondamentale per il calcio sudamericano, e poi i connazionali del San Lorenzo de Almagro, la squadra di Papa Francesco. E’ finale. Andata a Medellin il 30 novembre, ritorno all’Arena Condà due settimane dopo. Tutto annullato. La favola Chapecoense non c’è più.

VITTIME E SOPRAVVISSUTI: LE STORIE
Piange Chapecò, come tutte le città che hanno visto la maglia della loro squadra indossata da una delle vittime. Prendete l’allenatore Caio Junior. Da giocatore ha anche vestito la maglia dei portoghesi dei Vitoria Guimaraes. Da tecnico, oltre a molte squadre brasiliane (tra cui Flamengo, Palmeiras e Botafogo), ha lavorato anche in Giappone e Qatar. Sui social lo ricordano tutti. Nella Chape non c’erano vere star né vecchie glorie arrivate nello Stato di Santa Caterina per racimolare gli ultimi stipendi. Solo collettivo, solo gente abituata a correre e divertirsi, in uno stile molto brasiliano ma poco futebol bailado. Pochi soldi, molta fantasia. Alcuni giocatori avevano tentato la fortuna, soprattutto economica, all’estero. L’attaccante Bruno Rangel, ad esempio, veniva da un’esperienza in Qatar: bei soldi, calcio così così. E immediato ritorno in patria. Come il capitano Cleber Santana: nel 2009-2010 vestiva la maglia dell’Atletico Madrid allenato prima da Abel Resino e poi Quique Sanchez Flores. Uno degli idoli della torcida era il portiere Danilo. Contro l’Independiente era riuscito a parare un rigore, evitando l’eliminazione e garantendo alla Chapecoense la continuazione del sogno. Oggi Danilo è stato per qualche ora il quarto superstite biancoverde: lo hanno estratto vivo, lo hanno portato in ospedale. Non ce l’ha fatta. Si è salvato invece Matheus Saroli, il figlio dell’allenatore Caio junior: ha dimenticato il passaporto, non era salito sull’aereo. “Ora posso solo pregare perché non mi hanno ancora dato comunicazione ufficiali su mio padre” ha raccontato dai microfoni di SporTv, riuscendo a pronunciare qualche parola mentre piangeva a dirotto.

MORTO ANCHE MARIO SERGIO, CHE FALCAO VOLEVA A ROMA
Corsa, tocco di palla, fantasia. E quella barba che gli valse – molto brasilianamente – il nome d’arte di genio barbuto. Anche Mario Sergio è morto a bordo dell’aereo su cui viaggiavano i giocatori della Chape. A Roma, il genio barbuto per un periodo ha significato tante cose. Per merito o a causa di Paulo Roberto Falcao, che dopo aver vinto insieme a lui il campionato brasiliano con l’Internacional di Porto Alegre, lo avrebbe voluto portare con sé ai giallorossi. Non ci riuscì. Mario Sergio rimase in patria, e nel 1983, lo stesso anno in cui i giallorossi conquistarono il secondo scudetto della loro storia, Mario Sergio vinse con il Gremio, l’altra squadra di Porto Alegre, prima la Coppa Libertadores e poi l’Intercontinentale battendo l’Amburgo, con doppietta di Renato Portaluppi (altro ex romanista), ispirato proprio dal ‘barbuto’, autentico maestro degli assist, compresi quelli ‘no look’. Otto le sue presenze in nazionale, dove era poco gradito ai vari ct per via della sua forte personalità e di un carattere a dir poco difficile. Non la pensano così a Salvador Bahia, dove il genio giocò nel Vitoria e diventò un autentico idolo. Mario Sergio Pontes da Paiva aveva 66 anni, e dopo una lunga carriera anche da allenatore (San Paolo, Corinthians, Vitoria, Botafogo e Internacional), attualmente faceva l’opinionista tecnico per Fox Sports. Per questo motivo era salito sull’aereo della Chapecoense che si è schiantato in Colombia.

MACHADO E WINCK: GLI ITALIANI
Tra i giocatori biancoverdi, invece, c’era anche chi in Italia ci era andato. E’ il caso di Filipe Machado. “Amava Salerno perché gli ricordava la sua terra, il Brasile, e si era affezionato ai salernitani perché avevano la solarità e l’allegria tipici del suo popolo”. Nella città campana il ricordo di Machado arriva dalle parole di Francesco D’Ambrosio, all’epoca responsabile della comunicazione della Salernitana. “Machado – racconta il giornalista – non è riuscito ad esprimersi al meglio, in quanto è arrivato quando la Salernitana viveva un momento molto delicato, tanto che quell’anno retrocesse. Era un ragazzo molto mite, una persona perbene, con un forte spirito di collaborazione”. “Era taciturno, timido, ma un ragazzo d’oro. Arrivò a Salerno con mille speranze e la voglia di far bene” ricorda Guglielmo Acri, il direttore sportivo di allora. “Sto male, c’erano tanti amici in quel volo. Non ero lì per una decisione dello staff, della dirigenza” dice Claudio Winck, ex difensore del Verona (un gol in Coppa Italia), l’altro ‘italiano’ della Chapecoense. “Eravamo tutti amici, Matheus Biteco era come un fratello per me, lo conoscevo da quando aveva dieci anni e gli era appena nato un figlio – aggiunge il -calciatore – Erano felici di andare a giocare una finale, era importante per noi, e ora siamo tutti qua, allo stadio, senza capire“. A piangere.

“LA COPA SUDAMERICANA 2016 ALLA CHAPECOENSE” 
Plinio Davis Nes Filho, presidente del Consiglio direttivo del club, usa concetti precisi, scanditi, taglienti: “Ci sono amici di una vita che erano su quel volo. Per noi è molto difficile essere dei sopravvissuti. Non era solo un gruppo che si rispettava, era una famiglia. Vivevamo in armonia e gioia. Prima di imbarcarsi, i giocatori hanno detto che erano di nuovo alla ricerca di un sogno. E il sogno è finito questa mattina”. Il sogno sì, la leggenda della Chapecoense forse no. Grazie a chi nella finale di domani doveva essere l’avversario, l’ultimo ostacolo prima del paradiso. L’Atletico Nacional de Medellin ha chiesto che la Copa Sudamericana 2016 venga assegnata alla Chape. Di diritto. Per merito sportivo, per la memoria di un gruppo di giocatori finito a 180 minuti dalla gloria. E che giocherà solo nei ricordi di chi racconterà e ascolterà la storia di quella volta che una piccola squadra brasiliana era arrivata a giocarsi la vittoria nel secondo trofeo più importante del continente.

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