Non è il sentire dell’altro che può ferire, quanto le azioni che, da quel sentire, possono scaturire. Non abbiamo in dotazione manopole in grado di calibrare quel che proviamo, così le sensazioni arrivano come e quando vogliono: bisogna pur fronteggiarle e talvolta scegliamo di farlo nelle forme meno opportune. Sottolineo la possibilità di scegliere perché, se è pur vero che non si scelgono le emozioni da provare, lo si può fare in merito alla loro espressione.

Non è la rabbia dell’altro o la mia che può essere lesiva, ma la sua espressione quando si vuole deliberatamente provocare un danno, ferire, punire.

Agire con violenza, all’interno di una relazione affettiva, significa aver scelto di utilizzare la propria forza per intimidire e indebolire l’altro e significa aver fallito nel riconoscere dignità al proprio sentire. Se si ha necessità di imporlo, non ci si reputa in grado di farci strada da soli verso l’altro, prima vittima di un’azione violenta. Si nega la possibilità di comprendere e di comprendersi: l’altro è il nemico, cela bisogni diversi che non ci si prende il tempo di conoscere, come se ci si reputasse sbagliati solo per il fatto di avere idee, pensieri e sentimenti che possono non coincidere con quelli di chi mi sta intorno. Gli altri e quel che di loro pensiamo spesso divergono, ma ci si ostina a voler far coincidere le due cose.

La violenza di genere è diffusa e trasversale, la cronaca lo ricorda ogni volta che una donna viene ammazzata, non potendo dare la stessa attenzione a tutto quello che avviene nascosto quotidianamente all’interno delle mura domestiche. Quando parlo con gli altri uomini, riscontro una grande difficoltà nel far loro capire come il maltrattamento si nutra di tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti che noi spesso applichiamo alle donne, molte delle quali, allo stesso tempo, purtroppo sembrano pretendere quasi un determinato tipo di uomo che abbia anche quelle caratteristiche perché, dal peso della cultura patriarcale nella quale si vive, non sfugge nessuno.

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La vignetta di Pietro Vanessi

La violenza sulle donne è un reato, probabilmente il reato più a lungo nascosto e giustificato nella nostra storia, un numero altissimo di uomini lo commette e solo una piccola parte di questi viene perseguita e ancora meno sono coloro che si rendono conto delle conseguenze che producono sulle loro partner o ex partner.

Pensare di possedere l’altro è oggettivizzarlo, la prima forma di violenza dalla quale segue tutto il resto. Se voglio bene a una persona, tengo allo stare insieme a lei, tengo al fatto che mi pensi, tengo al fatto che non dedichi, ad altri, attenzioni che vorrei fossero solo per me, ma dovrei tenere altrettanto al semplice fatto che lei sia libera di poterlo scegliere. Quando si impone il controllo, la donna può accettare e rimanere in posizione passiva, per paura o per un insano condizionamento culturale che suggerisce che così deve essere, scambiando l’insofferenza per il giusto prezzo da pagare per non rimanere sola, oppure può ribellarsi e cominciare a pensare alla fuga da un tipo di relazione, in cui i suoi spazi e i suoi tempi non vengono rispettati. Se si cerca di controllare la partner, per timore che possa andare via, si aumentano le possibilità che decida davvero di farlo, a causa di quel controllo, profezie che si autoavverano. Le aspettative sono desideri sporchi di paura.

Purtroppo non è lo scrivere di queste cose che cambierà gli uomini e le donne, non è una lettura che farà la differenza, non è una giornata come il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, per quanto importante. Le donne violate e ammazzate devono costituire uno stimolo di riflessione e di cambiamento prima che vengano violate e ammazzate. Non c’è indignazione che possa competere con il reale rimboccarsi le maniche. Di indignazione siamo pieni ed è forse il motivo per cui l’azione viene rimandata sempre al domani oppure ci si convince debba riguardare gli altri e non noi. Abbiamo bisogno di una volontà, di una visione e di un’azione politica che permetta a tutti coloro che si occupano della violenza di genere di farlo senza ostacoli, a tempo pieno e con le risorse adeguate. E’ la nostra società ad avere le mani sporche di sangue, ancor prima dei singoli individui, ma è dai singoli che deve partire il cambiamento, quando la collettività non ha ancora sviluppato l’autoconsapevolezza necessaria.

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