Via del Tamigi, via della Senna, via del Danubio. A Bruzzano le strade hanno nomi di grandi fiumi. Ma qui di grande ci sono solo i palazzoni popolari alti e grigi. Siamo nel lembo estremo a nord di Milano, da sempre regno del boss di ‘ndrangheta Giuseppe Flachi, detto don Pepè, che tra gli Ottanta e Novanta è stato uno dei signori dell’eroina e grazie all’alleanza con il padrino Franco Coco Trovato è stato accolto nel giro più esclusivo della mafia sotto la Madonnina. E’ questo uno degli ultimi fortini della droga della città. E’ qui, che in mezzo alle tante persone perbene che abitano in questi casermoni, si uccide e si spara, mentre negli scantinati si custodiscono “roba” e armi e lo spaccio va in scena en plein air.

L’ultimo sequestro di coca messo a segno dalla polizia risale a una settimana fa. Li tenevano d’occhio da tempo. Nel quartiere erano conosciuti come il “Biondo”, Daniele Dal Pan, di 27 anni, e il “Nero”, Solomon Wuldetatios, di 22, chiamato così per le sue origini sudafricane. Coppia di spacciatori affiatata. Pusher di medio livello. Entrambi nati a Milano, pregiudicati e residenti nella stessa strada: via del Tamigi.

E’ da loro che partono gli agenti del Commissariato Comasina che di quelle strade conoscono vita, morte e miracoli. Niente intercettazioni telefoniche né ambientali. Solo appostamenti infiniti, pedinamenti interminabili, raccolta di confidenze maniacale. Indagini fatte alla vecchia maniera che martedì 15 novembre portano alla svolta. Il “Biondo” e il “Nero” non se ne accorgono, ma da tutto il giorno gli uomini guidati dalla dirigente Elisabetta Silvetti li seguono come ombre. I due sono a bordo di una Smart nera. Girano per Bruzzano, poi prendono la strada per Cusano Milanino. Intono alle 18 si fermano davanti a un laboratorio di via Zucchi. Gli agenti capiscono che è il momento e decidono di intervenire. Bloccano Wuldetatios, il “Nero”, appena scende dall’auto e lo arrestano. Dal Pan, il “Biondo”, ingrana la prima e riesce a fuggire, ma sabato 19 si costituisce in commissariato evitando così l’arresto. L’intuizione degli investigatori si rivela giusta. Dentro il laboratorio sono nascosti tre chili di cocaina non ancora tagliata di buona qualità. Valore al dettaglio: 300mila euro. Non solo. Da un borsone saltano fuori un kalashnikov, un Uzi con silenziatore, un fucile da caccia calibro 12, una carabina a canne mozze e una pistola P38. Gli agenti trovano anche un centinaio di munizioni di vario calibro, un giubbotto antiproiettile e quattro divise da carabiniere. Le armi e le uniformi risultano rubate. Il sospetto della polizia è che servissero per compiere rapine.

Per ora il “Biondo” e il “Nero” sono accusati di detenzione ai fini di spaccio di droga e possesso di armi e munizionamento da guerra. Dal Pan è indagato a piede libero. Wuldetatios si trova in carcere. Gli investigatori, però, sono convinti che la “coppia dello spaccio” rappresenti solo un anello intermedio e per questo continuano a indagare per capire fin dove arrivi questa catena.
Soltanto una decina di giorni prima, gli uomini del Commissariato Comasina avevano sequestrato un altro importante carico di droga, sempre in via del Tamigi. Dopo aver raccolto le voci del quartiere, i poliziotti agganciano un 26enne che tutti chiamano “Ale”: Alessandro Altavilla, 26 anni, qualche precedente. Il 3 novembre l’appostamento davanti al palazzone dà i suoi frutti. Altavilla gironzola tra le cantine del civico 7. Si china all’improvviso per raccogliere un mazzo di chiavi che un uomo gli ha appena lanciato dalla finestra del pianterreno. “Ale” raccoglie il mazzo e apre una porta. Quando gli agenti entrano per bloccarlo lo trovano impegnato a confezionare bustine di cocaina pronte per essere spacciate. Vengono perquisite altre due cantine di cui Altavilla ha le chiavi. Risultato: 550 grammi di cocaina, 900 grammi di marijuana e 950 grammi di hashish, una Beretta col colpo in canna, un revolver Mondial e diversi proiettili, oltre a settemila euro in banconote false da 50 euro ben fatte e 700 euro vere.

Ma a Bruzzano non si smercia solo droga e le armi non vengono solamente stoccate nei magazzini e negli scantinati. A volte capita di sparare per uccidere. Come avviene la sera del 18 settembre 2015, quando Kastriot Zhuba, trentenne albanese, già ricercato per un triplice omicidio nel suo paese, trasforma le strade del quartiere in un far west. I suoi bersagli sono i cugini albanesi e pregiudicati Arben e Modi Kthella, di 41 e 38 anni. Il primo viene colpito con due proiettili alla schiena e alla testa in piazza Giustino Fortunato. Muore sul colpo. Il secondo sopravvive. In via Marna, Zhuba ammazza anche il muratore egiziano Ibrahim Sharara, 36 anni, che si trova per caso sulla stessa strada percorsa dal killer e ha l’unica colpa di fuggire quando l’albanese gli ruba l’auto per darsi alla fuga.

Un regolamento di conti che per un istante riporta la memoria agli anni più bui della guerra combattuta sul finire degli Ottanta: da una parte il clan guidato da don Pepè Flachi, alleato con gli ‘ndranghetisti di Franco Coco Trovato, dall’altra la famiglia campana dei Batti. Una faida per il controllo del business della droga che in una decina di anni lascia sui marciapiedi di Bruzzano 14 morti.

Altri tempi. Altra malavita. Anche se il nome di don Pepè qui fa ancora paura. Oggi, forse, si spara di meno, ma si smercia sempre alla grande. In via della Senna, tre ragazzetti sulla ventina si riparano dalla pioggia sotto una tettoia all’ingresso di un palazzone Aler. Uno dei tre ha un bel pezzo di hashish in mano. Lo scalda e lo sbriciola mentre l’amico gli passa una cartina e una sigaretta. “Eccolo qua lo spaccio. Ma noi non ci droghiamo, ci facciamo solo una canna mentre aspettiamo le nostre ragazze”. Qualche civico più avanti, un signore di mezza età tiene per mano la nipotina appena uscita da scuola. Stanno rincasando. “Droga? Io non vedo niente”.

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