Prendiamo spunto dalla ricerca “Le principali società italiane” di Mediobanca, per svolgere brevi considerazioni sulla produttività della Rai.

Il numero dei dipendenti del gruppo Rai, circa 13mila unità (contro 21mila della Bbc e 10mila di France Télévisions), è più del doppio di quello Mediaset e circa cinque volte di quello Sky. Un divario consistente che richiede alcune precisazioni.

Il perimetro di mercato delle tre aziende è molto diverso. Mediaset, per esempio, ingloba anche la Tv spagnola Telecinco, mentre Sky appartiene a un grande gruppo estero. È soprattutto la Rai a distinguersi: essa, a differenza degli altri due competitor, ha le sedi regionali e gestisce la dispendiosa informazione locale, attività che implica un rilevante impiego di personale, ha la radio (secondo editore radiofonico per diffusione dopo il gruppo Finelco) e varie altre attività connesse al ruolo di servizio pubblico, come i corrispondenti all’estero, l’orchestra sinfonica, le teche, i programmi per le minoranze linguistiche e per gli italiani all’estero e altro. La Rai è un “servizio pubblico” e per questo svolge diverse attività definibili “fuori mercato”, nel senso che nessun operatore privato avrebbe convenienza a svolgere. Nelle stesse attività di mercato la Rai è ridimensionata: per esempio può trasmettere una quantità di pubblicità pari a meno di un terzo rispetto ai privati, poiché finanziata dal canone di abbonamento. Va segnalato infine che privati hanno l’obiettivo della massimizzazione degli utili, la Rai solo l’equilibrio di bilancio.

Ciò detto si conferma che il confronto fra soggetti così diversi non può che essere solo indicativo.

Fatta questa premessa, stupisce che mentre Mediaset e Sky riducono il personale a fronte della contrazione dei ricavi, la Rai operi in maniera diversa: il fatturato diminuisce del 14%, il personale dipendente aumenta (Mediobanca non specifica se siano accaduti negli anni presi in considerazione dei fatti straordinari). Eppure tutti gli ultimi vertici dell’azienda si sono attivati nella riduzione del personale tramite uscite, in numero consistente, più o meno incentivate. Uscite che, evidentemente, sono state compensate da altrettante entrate.

C’è infine un’altra variabile da rilevare. Si suole dire che la Rai ha più personale poiché è più elevata, rispetto ai concorrenti, l’autoproduzione. Questo valeva fino agli anni Duemila, fino a quando il mercato dell’audiovisivo non si è consolidato. In misura graduale la Rai ha scelto l’acquisto dei programmi, sia per quanto riguarda l’ideazione (i format) come per la produzione. Ormai il palinsesto è composto da programmi, in particolare quelli della prima serata, prodotti esternamente, nell’ideazione e spesso anche nella parte produttiva. I motivi sono diversi e sintetizzabili spesso nella convenienza economica delle produzioni esterne (nelle “piccole” factory i costi fissi sono piuttosto contenuti) e nella qualità dei programmi (la creatività ha talvolta difficoltà a convivere con la burocrazia delle grandi aziende). La Rai dovrebbe decidere se favorire, nella produzione dei programmi, le risorse interne (avendo oltretutto bravi professionisti, spesso inattivi) o invece l’acquisto dei programmi, giacché le due scelte tendono a elidersi. Finora è lievitato l’acquisto e nello stesso tempo non è diminuito il personale interno.

Il risultato è che i due indicatori comunemente usati per misurare la produttività, il fatturato medio per dipendente e, in particolare, il valore aggiunto per dipendente (il valore aggiunto, calcolato sottraendo dal fatturato gli acquisti e gli ammortamenti, misura il contributo che la forza lavoro dà alla creazione del fatturato) danno la Rai soccombente.

Il divario degli indicatori fra la Rai e i due competitor privati, è dovuto, in quale quota non è dato sapere, dai costi sostenuti per le attività “fuori mercato”, ma anche dalle inefficienze, dalla mancata corretta scelta fra “buy or make” e, nel caso vi fosse (?), dalla qualità superiore della programmazione.

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