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Non un rumore. Cammini tra queste fila lunghe e strette di cippi bianchi, e non vedi altro, non senti altro, sembra non sia rimasto altro, sulla terra: sembra siano morti tutti. E in effetti lo sono. Il memoriale di Srebrenica ricorda Arlington, ricorda i cimiteri di guerra americani, è semplice, minimale: sono solo cippi bianchi. Ma all’ingresso, l’elenco dei nomi è in ordine alfabetico, e ogni nome si ripete non due, tre volte, tre cugini, due fratelli, un padre e un figlio: si ripete quindici, venti, trenta volte. Sembra l’elenco del telefono. Sembra l’anagrafe – è l’anagrafe. Gli abitanti di Srebrenica sono stati uccisi uno a uno. Sistematicamente. Metodicamente.

Le donne di qui, gli uomini di là.

E che nessuno resti vivo.

Era il 1995. In Bosnia si combatteva da tre anni, e Srebrenica, una piccola città di terme rifugio di migliaia di profughi, era stata dichiarata dall’Onu zona protetta. Con la scusa di distribuire aiuti umanitari, i serbi, sotto il comando di Ratko Mladić, entrarono, e in poco più di una settimana, a luglio, assassinarono 8.372 persone. I caschi blu non intervenirono. Hanno poi avuto una medaglia “per il loro comportamento in circostanze difficili”.

Ventuno anni dopo, Srebrenica è una strada vuota che attraversa muta una valle punteggiata di case. Un ragazzo gioca a pallacanestro da solo su un campo di cemento, il tabellone arrugginito, nella casa accanto un uomo fuma una sigaretta seduto su un gradino, a capo chino. Piove. Non c’è nessuno. Solo un emporio, all’angolo, che vende un po’ di tutto. Sono case con il tetto spiovente, la staccionata, l’orto: poi ti accorgi che sono disabitate da anni. Sul vialetto, un triciclo scolorito. Una vecchia mi fissa. Una vecchia che somiglia a una vecchia in Siria, viveva sottoterra, in una tomba, e aveva lo stesso scialle, addosso, e queste stesse rughe, come un tronco di ulivo, stava ferma così, a fissarmi allo stesso modo – com’era? Carlo Levi, con questi occhi neri che non brillano, e non sembra che guardino, come finestre vuote di una stanza buia.

Sì, so che dovrei bussare, adesso, parlare. Fare domande. Sono qui per questo. Ma cosa mai dovrei dire? Sì, signora, ci siamo già viste. Sì, ci conosciamo. Si ricorda? Era inverno, e mi ha preparato il tè, era freddo, ed erano morti tutti.

Cosa mai dovrei chiedere?

Cosa c’è che io già non sappia? Di questa guerra, di ogni guerra.

Cammino tra questi cippi bianchi, queste fila lunghe e strette, sotto questo cielo di ferro, e penso a quando tra ventuno anni camminerò nel memoriale di Aleppo. E tutto sarà ordinato, infine, tutto sarà chiaro: tutto quello che ora sembra confuso, e cieco, istintivo, azione e reazione – e invece tutto sarà chiaro: sistematico: preordinato. Pensato. Deciso. Voluto. Chi ha agito, e chi è rimasto a guardare – tra ventuno anni, quando quegli occhi neri saranno i miei.

Quelle case la mia.

Oggi Mladić è all’Aja in attesa di giudizio. Radislav Krstić, il generale che guidò l’assalto, è stato condannato a 35 anni di carcere, Radovan Karadžić, presidente della repubblica serba di Bosnia, è stato arrestato dopo una lunga latitanza, e ad aprile, condannato a 40 anni. A Belgrado per molti è un eroe, come per molti è ancora un eroe Milošević, l’architetto della guerra, che solo la morte ha sottratto al carcere a vita. Posso quasi sentirlo Antonio Cassese, che del tribunale dell’Aja per la ex Jugoslavia è stato il primo presidente, e con cui ho studiato, posso quasi sentirlo, che dice: Non è molto, è vero, ma è meglio di niente. Il diritto internazionale è imperfetto, dice, è incompleto, ha mille limiti: ma ogni sentenza fa precedente, è le fondamenta della sentenza successiva. Di una sentenza migliore. Anche se non sembra mai abbastanza.

Dice: Il diritto impara da se stesso. Posso quasi vederlo, dice: ha mille limiti, sì. Ma proprio per questo non devi attaccarlo, devi difenderlo. Difenderlo. Sempre.

Oggi Srebrenica ha 15mila abitanti, e una maggioranza non più musulmana ma serba. Il nuovo sindaco, Mladen Grujicic, nega che qui si sia mai avuto un genocidio.

Assad nega che in Siria si sia mai avuta una rivoluzione.

Il diritto forse impara, sì. Ma la storia?

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