A cinque anni dalla primavera araba, nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente l’estate è ancora lontana e sembra essere invece tornato l’inverno, nell’attesa di una perturbazione positiva che oggi potrebbe arrivare da Washington. Il tramonto delle esperienze di Zine El-Abidine Ben Alì in Tunisia, di Hosni Mubarak in Egitto, di Mu’ammar Gheddafi in Libia e di ‘Ali ‘Abd Allah Saleh in Yemen e i profondi scossoni che hanno interessato l’intera regione non hanno generato inversioni di rotta nelle difficili condizioni economiche in cui versano tutti i Paesi, che oggi si trovano a fronteggiare un contesto di transizione obbligata.

Sebbene leggermente in ripresa nelle ultime settimane, il prezzo del petrolio resta lontano dai 100 dollari del 2014 e secondo il Fondo Monetario Internazionale non ritornerà sopra i 60 dollari prima del 2021. Per sopperire alla carenza di risorse, non sono pochi i Paesi che si stanno rivolgendo ai capitali internazionali. L’Arabia Saudita, che sta portando avanti il piano di ristrutturazione della propria economia denominato Vision 2030, ha chiuso una delle maggiori emissioni di bond da parte dei mercati emergenti, per 17,5 miliardi di dollari, a fronte di una richiesta record di 67 miliardi. Qatar, Abu Dhabi e Oman hanno emesso obbligazioni rispettivamente 9, 5 e 4,5 miliardi di dollari, mentre il Kuwait è pronto a lanciare un’emissione da 10 miliardi. L’Algeria ha invece ricevuto la scorsa settimana un prestito dalla African Development Bank di 1 miliardo di dollari, che si inserisce nel cosiddetto “New economic growth model”, varato pochi mesi fa con termine nel 2030, con l’obiettivo di sganciare l’economia algerina dal petrolio e avviare un piano di diversificazione e industrializzazione. L’Egitto, che dopo gli attacchi terroristici in Francia ha visto crollare gli arrivi di turisti stranieri perdendo una fonte di introiti cruciale, ha appena ottenuto dall’Fmi un maxi prestito da 12 miliardi di dollari in tre anni. Il via libera è arrivato dopo mesi di negoziati e a fronte di un pacchetto di riforme imposte da Washington che va dalla riduzione dei sussidi su carburanti e combustibili all’abbandono del cambio fisso. Nel frattempo la Banca centrale del Cairo ha emesso obbligazioni a creditori internazionali per 2 miliardi di dollari.

“Una maggiore flessibilità dei tassi di cambio aiuta la competitività. Le riforme strutturali – soprattutto nelle aree del business, commercio, lavoro e mercati finanziari – sono necessarie per dare impulso all’espansione del settore privato e alla creazione di lavoro”, scrive il Fmi nella sua analisi, di ottobre, sulla regione. E in effetti, secondo il rapporto Doing Business 2017 della World Bank, un impulso c’è stato se Medio Oriente e Nord Africa nell’ultimo anno hanno messo in cantiere il maggior numero di riforme dal 2009, per un totale di 35 in 15 dei 20 Paesi dell’area. Ma oltre a rendere l’ambiente più favorevole per gli affari, e generare così investimenti e lavoro, molti Paesi per far quadrare i conti cercano di ridurre anche i costi.

È per esempio il caso della Tunisia, che ha insediato a fine agosto un nuovo governo di unità nazionale, per portare avanti un programma di austerità: lotta alla corruzione, tagli al settore pubblico, aumento delle tasse. L’Arabia Saudita quest’anno ha cancellato progetti di investimento per 20 miliardi di dollari. Mentre lo stallo politico in Libia, con due governi e il golpe tentato poche settimane fa dagli islamisti, costringe Tripoli a una recessione che perdura dal 2013, con il Prodotto interno lordo che nel 2016 ha subìto una contrazione dell’8,3% nel 2016 e con un’inflazione cresciuta del 24% nei primi sei mesi del 2016. La mancanza di fondi ha di fatto interrotto i sussidi alla popolazione e svuotato le scorte di cibo, con un rincaro del 31% dei prodotti alimentari.

Libia, ma anche Siria, Iraq e Yemen: i conflitti rappresentano un’ulteriore fattore di tensione e continuano a provocare una severa crisi umanitaria, con il più alto numero di rifugiati dalla Seconda Guerra Mondiale e una spesa pubblica che lievita per i Paesi vicini. Al contempo le guerre devastano il tessuto economico e imprenditoriale, impediscono lo sviluppo di nuove attività e generano sfiducia nella popolazione. Uno studio della Banca mondiale intitolato “Inclusione sociale ed economica per prevenire l’estremismo violento”, presentato lo scorso ottobre, rivela che l’Isis non recluta i suoi affiliati tra la popolazione più povera e meno scolarizzata, bensì sarebbe la mancanza di inclusione sociale alla base della radicalizzazione. Tra i Paesi che forniscono più reclute all’Isis ci sono, in ordine, Arabia Saudita, Tunisia, Marocco, Turchia ed Egitto. E secondo lo studio, condotto sui dati raccolti dal Combating terrorism center su oltre 3.800 reclute dello Stato islamico nel 2013 e 2014, sarebbe proprio la diffusione degli attacchi terroristici a contribuire alla scarsa crescita economica della regione, alimentando così un circolo vizioso.

Anche per questo la vittoria di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca suscita speranze nell’area mediorientale. Molti infatti ritengono che la reciproca simpatia con il Presidente russo Vladimir Putin potrebbe avere effetti di distensione nella regione e magari favorire una ripresa economica. La prima telefonata di congratulazioni dai leader mondiali al nuovo presidente degli Stati Uniti d’America è arrivata proprio dal Cairo, e cioè da Abd al-Fattah al-Sisi, definito dallo stesso Trump “un tipo fantastico” con cui si è creata “una buona chimica”, durante un incontro dello scorso settembre all’assemblea generale delle Nazioni Unite. La sconfitta Hillary aveva invece definito l’Egitto “una dittatura militare”.

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