La festa fuori dallo stadio, gli applausi sugli spalti, l’attesa per la mitica Haka. Ma sul campo l’ennesima disfatta. “Solo per chi non capisce di rugby”, ha replicato un po’ stizzito capitan Parisse. Ma il punteggio, 10-68, parla piuttosto chiaro. Ancora una volta Italia-Nuova Zelanda è stata una specie di rituale magico della palla ovale. Solo che noi eravamo le vittime sacrificali.

È anche difficile giudicare una sfida che dalle nostre parti continua ad assumere i contorni un po’ di grande evento mediatico, un po’ di sagra paesana (per quella che è la cultura rugbystica dell’italiano medio e l’approccio collettivo alle partite della nazionale): i litri di birra, la solita retorica sul terzo tempo, l’adorazione per gli avversari neozelandesi quasi fossero dei in terra. Fortissimi, per carità, ma battuti una settimana fa dall’Irlanda. Infatti viene anche da chiedersi persino l’opportunità sportiva di organizzare simili test match, inutili o quasi a fini agonistici. Commerciali no, perché l’Olimpico ha registrato di nuovo il tutto esaurito (solo la nazionale di rugby ormai riesce a riempirlo, al contrario di Roma e Lazio), e la Federazione ha fatto un affarone.

Sul campo, però, c’è stata anche una partita: la prima in Italia della nuova gestione di Conor O’Shea, il ct irlandese chiamato a raccogliere i cocci dell’era Brunel . Il risultato non è stato incoraggiante. Certo, non era questo il match che la nostra nazionale doveva o poteva vincere: un incontro fra una squadra fortissima (la Nuova Zelanda, possiamo dire la più forte del mondo senza esagerare) e una formazione (l’Italia) che è stata a lungo allo sbando e sta cercando ora di ritrovarsi. La facilità con cui gli avversari hanno vinto, dando l’impressione di giocare anche a mezzo regime senza affondare troppo il colpo, è stata però disarmante. E anche un po’ desolante. Nel post partita Parisse ha giurato che non è la solita storia, che il gruppo sta lavorando benissimo, che è l’inizio di una nuova era. Sarà, ma per il momento si fa davvero fatica a cogliere questi segnali di ripresa dall’esterno. Qualche cosa di positivo magari si è anche visto: la continuità e concentrazione che la squadra ha saputo mantenere per 80 minuti (negli ultimi tempi si sfaldava alla prima difficoltà); la maggior disciplina rispetto al passato, che ha evitato quei falli ingenui che spesso sono costati caro alla nazionale. Certo però conta poco giocare in maniera tatticamente accorta, se il patrimonio tecnico è limitato come sembra essere quello di questa nazionale.

Insomma, Italia-All Blacks è stata solo l’ennesima sconfitta. E a furia di perdere ci si dimentica anche come si perde. 14 novembre 2009, Italia-Nuova Zelanda 6-20 a San Siro: appena due mete concesse, scarto ridotto, finale in attacco con gli avversari in affanno e la marcatura ripetutamente sfiorata con la mischia sotto i pali. Oppure 17 novembre 2012, proprio all’Olimpico: un 10-42 ben più dignitoso, anche perché dilatatosi solo negli ultimi minuti. Stavolta le mete subite sono state dieci, la partita già chiusa dopo un quarto d’ora, il fischio finale accolto come un sospiro di sollievo dai giocatori. L’Italia del rugby va indietro, non in avanti. Ma tanto il pubblico dell’Olimpico continua a far la ola.

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