“Nel ’79 era una Fiat 127 bianca. Io avevo 7 anni e mio padre, per farmi stare comodo, mi rese i sedili più morbidi mettendoci sopra un po’ di paglia. Nel ’97 invece avevo una Golf, comprata coi soldi miei, ma si trattò solo di un paio di notti. E ora, ecco qua”. Massimiliano sorride, mentre alza un braccio e indica la sua Jeep. “Questo è il nostro letto, più o meno da due mesi”. È dalla notte che seguì la distruzione di Amatrice che lui dorme in macchina, insieme a sua moglie. “Le bambine – precisa – stanno nell’altra, che è una station wagon ed è un po’ più confortevole”.

Qui a Cascia tutti sono concordi nell’indicare proprio il 24 agosto come “l’inizio del calvario”. “Terremotati noi lo siamo da quel giorno, e non dal 30 di ottobre. E infatti – spiega Sistina – è dal 24 di agosto che ognuno ha cercato una sistemazione alternativa”. In tanti hanno adibito l’automobile a dormitorio. “Ogni volta che lo sciame si faceva più forte, passavamo qualche notte in macchina. La scossa del 26 ottobre ci ha salvati: è per questo che da allora non siamo più rientrati in casa, è per questo che ora non piangiamo morti”.

A prima vista, il terremoto a Cascia non ha provocato danni enormi. Certo, attraversando il paese, scendendo lungo la via che dal santuario di Santa Rita conduce fino alla tendopoli allestita dalla Protezione Civile, è difficile non notare le crepe che solcano le pareti esterne dei palazzi, i muri di recinzione divelti, i metri di nastro bianco e rosso che delimitano le zone inaccessibili. Eppure, arrivando a Cascia dopo esser stati a Norcia, la sensazione che si ha è quella di una relatività tranquillità. A riconoscerlo sono gli stessi abitanti, che però subito espongono la loro preoccupazione: “La nostra paura è che la devastazione di Norcia oscuri i problemi di Cascia, e che di noi ci si dimentichi in fretta”, spiega Paolo, cacciatore del posto che ci tiene a far assaggiare a chi viene da fuori le sue salsicce di capriolo e spinosa: “Non sono ancora stagionate a dovere, ma la mattina del 30 il mio amico di Norcia che si occupava della mia carne mi ha telefonato: ‘Qui sta crollando tutto, sbrigati a venire a recuperare la tua roba oppure va perduta’”.

Basta spostarsi di qualche chilometro, però, per capire che anche a Cascia la devastazione è arrivata. Non nella parte residenziale a ridosso del centro, ma nelle frazioni vicine. Ad Avendita la zona rossa è segnalata da cartelli appoggiati alle transenne, che però tutti scansano o scavalcano. Proprio all’entrata del centro abitato, un palazzo che era stato ristrutturato di recente per esser trasformato in una struttura alberghiera è collassato. Il tetto, pressoché integro, sta accasciato a pochi centimetri dall’asfalto. La tendopoli, ad Avendita, è stata realizzata sullo stesso spiazzo dove nel ’79 erano stati montati i container: pochi metri quadrati in cui sembra concretizzarsi la continuità che lega un terremoto all’altro, la persistente incombenza della sciagura. Ed è facile rendersi conto che non è Massimiliano il solo a collegare i precedenti terremoti a eventi o oggetti specifici. Nazareno mostra la sua casa, le cui mura sono lesionate in vari punti. “Nel ’79 io e mia moglie, appena sposati, ci eravamo trasferiti qui da qualche settimana quando fece la scossa. Nel ’97 stavo giusto finendo di pagare il mutuo, ma per fortuna in quel caso non ci furono danni, solo tanta paura”. Dal 1979 al 2016: un arco di tempo di quasi 4 decenni scandito – “a intervalli regolari di circa 18 anni”, fa notare Paolo – dalla ricorrenza del terremoto. “Mia figlia nel ’98 fu battezzata mentre ancora lo sciame non s’era placato, e proprio il 24 di agosto è diventata maggiorenne. Bel compleanno, eh?”.

La memoria di ciò che è stato, però, si rinnova non solo nell’autocommiserazione, ma anche nel timore di ciò che si prospetta per i prossimi mesi. Quando sentono parlare di container, i casciani mostrano un malcontento che è quasi unanime, e che in certi casi sfocia nella rabbia. “Io ci ho passato 8 anni in un container – protesta Massimiliano – e non voglio rientrarci mai più”. In tanti ricordano, soprattutto, il freddo patito in quegli inverni. Le scarpe da ginnastica bagnate che restavano incollate al pavimento ai piedi del letto, perché l’acqua e il sudore durante la notte si gelavano; le stalattiti che al mattino pendevano dal soffitto. “Mia madre ancora soffre per la bronchite che si è rimediata all’epoca”, spiega Paolo. Se si fa notare che, nelle intenzioni del governo, i container sono una soluzione provvisoria in attesa dei moduli abitativi in legno, in molti insorgono. “Renzi promette, ma noi non ci fidiamo. Si dice sempre che è una cosa momentanea, ma ormai lo sappiamo che poi i container rimangono per anni”. Le casette di legno: quella è l’alternativa più invocata. “Perché solo a primavera? Perché non subito? Chi l’ha detto che non si possono montare in un paio di settimane?”.

Un’attesa, quella per una sistemazione dignitosa, gravata da un’altra frustrazione: quella dell’apparente impossibilità di arrangiarsi autonomamente. “Mio nipote – dice Massimiliano – vive a Leonessa. Dopo la scossa del 24 agosto si era montato un piccolo prefabbricato di legno in giardino; pochi giorni fa gli è arrivata l’ingiunzione di sgombero. Se questa è la legge, allora è una legge sbagliata”. Racconta Stefano: “Siamo in contatto con decine di associazioni: vengono dal Piemonte, dall’Emilia, dalla Puglia. Sono pronte a darci in prestito roulotte e casette, tutto gratis. Ma la Protezione Civile a volte blocca tutto, perché per le autorizzazioni del caso ci vuole tempo”. I permessi arrivano col contagocce, e anche per questo non mancano le tensioni. “Siamo gente di montagna, noi. Non molliamo. Io gliel’ho detto a quelli della Protezione Civile: se aiutare Cascia è reato, allora arrestatemi”, insiste Stefano, e mentre parla incrocia i polsi davanti al viso. “Sembri Mourinho qualche anno fa”, scherza un suo amico. E tutti e due scoppiano a ridere.

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