Ma quale abolizione della censura? In questa nuova legge sul cinema ci sono tanti buoni propositi ma non si elimina affatto il concetto più ampio di censura”. Parola di Roberto Curti, autore di Visioni Proibite volume 1 e 2 (Lindau) e Sex and Violence (Lindau) sul cinema “estremo” ad ogni latitudine del globo, uno dei massimi esperti di tagli e divieti esercitati sulle opere cinematografiche in Italia dalle famigerate commissioni ministeriali istituite nel lontano 1962. “L’abolizione delle commissioni prevista nel ddl sul cinema dall’art. 33 comma 2 lettera b) è sacrosanta, ma non è tutto oro quello che luccica”, spiega Curti al FQMagazine. “La legge delega la disciplina futura a decreti legislativi da adottare entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge, e occorrerà istituire un “organismo di controllo” i cui compiti e modalità di funzionamento sono ancora tutti da stabilire, come pure il sistema sanzionatorio”.

Si parla di “principio di responsabilizzazione” di produttori e distributori che andrebbe ad eliminare la censura…
“Questo principio introdotto dalla legge è di fatto un meccanismo di autocensura, che si affianca a quella, silenziosa, che già esiste, nel momento in cui i produttori o distributori presentano alle commissioni pellicole già “ammorbidite” per evitare divieti, o eliminano il problema alla radice evitando di esporsi economicamente per progetti dalle caratteristiche “a rischio”, che potrebbero comprometterne le vendite televisive. Insomma, tanti buoni propositi che, nonostante i proclami non eliminano affatto il concetto più ampio di censura, ma si limitano a togliere di torno la sua forma più polverosa e ingombrante”.

Il problema sembra essere quindi a monte, in quello che produttori/distributori pensano possa aggradare i futuri “organi di controllo” con il rischio che nessuno più “osi” fare un film malvoluto…
“Esatto. Va poi aggiunto un altro ragionamento. In mancanza di regole antitrust serie, i milioni stanziati in questa legge per nuove sale rischiano di allargare ulteriormente quella dittatura da multisala che fa della massificazione – e quindi dell’eliminazione di ogni fastidio, spigolo, voce contraria – un pilastro fondante. Non basta dire “stop alla censura” per far sì che tutto vada bene, e che il cinema torni magicamente a essere libero (libero “di”: provocare, scandalizzare, mettere in discussione i dogmi, eccetera). Oltre vent’anni fa Marco Bellocchio scriveva che la censura non è più nell’”istituto della censura” ma “in questa terribile omologazione, nella pax televisiva, in questo progressivo imbarbarimento e impoverimento della qualità delle immagini”, e il problema non è cambiato di molto. Anzi, diciamo pure che l’omologazione, l’imbarbarimento e l’impoverimento sono il tratto dominante della società odierna”.

Come nacque la contestata e longeva legge del 1962?
“Intanto quella legge rinnovava una disciplina che arrivava dal fascismo con un regio decreto del 1923 a dir poco obsoleto: tra le fattispecie che impedivano il rilascio del nulla osta c’era, per dire, la presenza di “fenomeni ipnotici e medianici” e “scene, fatti e soggetti che possono essere di scuola e incentivo al delitto”. Quando Andreotti riforma la disciplina cinematografica, si guarda bene dal toccare il decreto del ‘23. E che nel dopoguerra quella disciplina sia rimasta invariata per oltre quindici anni prima di una nuova legge dice molto sull’Italia di quel tempo. Era l’epoca della censura preventiva sui copioni, introdotta durante il fascismo: vittime spesso quei registi sgraditi al governo, da Lizzani a Visconti, e la censura è manifestamente di tipo politico. Sono numerosi i casi di documentari vietati dalla censura perché incentrati su argomenti quali scioperi, funerali di lavoratori uccisi dalla polizia, eccetera. Per non parlare delle pellicole provenienti dai paesi dell’Est: un titolo su tutti, “Aleksandr Nevskij” di Eisenstein, che da noi esce solo nel 1960, dopo numerose bocciature”.

Come funzionava questa legge?
“In primo luogo rinnovava le Commissioni di revisione, prevedeva il divieto ai minori di 14 e 18 anni (prima c’era un v.m.16) con una casistica di elementi che giustifichino i divieti (volgarità, violenza, ecc.) e una serie di termini perché si provveda alla revisione (in precedenza potevano passare mesi e mesi prima di un responso). Inoltre dispone che il regista e il produttore “possono e devono essere uditi”, auspicando un dialogo tra le parti, che poi di fatto diventava un mercanteggiare sui metri di pellicola da tagliare. Il criterio dirimente divenne l’offesa al buon costume, con riferimento all’art. 21 della Costituzione. E come si può immaginare, la definizione di cosa sia da considerarsi “buon costume” è come una saponetta che sfugge dalle mani, tanto più che l’art. 33 della Costituzione garantisce l’espressione artistica”.

Poi con gli anni settanta fanno capolino scene di nudo e soprattutto il porno…
“Con l’allentarsi delle maglie di censura e l’avvento in massa del nudo sugli schermi, il proscenio tocca ai pretori che iniziano a sequestrare a man bassa, e il divieto ai minori diventa anzi un marchio di qualità da sfoggiare per attirare la gente al cinema. Per non parlare dei magheggi che diventano la norma con il dilagare del porno, con le commissioni che si vedono proiettare pellicole ampiamente alleggerite, con scene di campi in fiore e aerei che decollano al posto delle sequenze hard, che vengono puntualmente reintegrate nelle copie distribuite in sala: l’importante è ottenere il visto censura. I censori lo sanno benissimo, ma pilatescamente se ne lavano le mani”.

Unica modifica nel 1995 con il ministro Veltroni?
“Sì, dal ‘62 in avanti ci sono stati pochissimi cambiamenti. Solo nel 1995, dopo l’abrogazione del ministero del Turismo e dello Spettacolo, la composizione delle commissioni viene ridisegnata, con l’introduzione di docenti di pedagogia e rappresentanti dei genitori (il decreto di esecuzione però è emanato solo nel 1998). Con il caso di Totò che visse due volte, il film di Ciprì e Maresco, bocciato in primo grado nel 1998, spuntano proposte di legge per la riforma della censura, e l’allora ministro dei beni culturali Veltroni ne annuncia l’abolizione: molti ci credettero, ma con la fine della legislatura il progetto rimase lettera morta”.

Oltre a Salò di Pasolini e Ultimo Tango a Parigi di Bertolucci le vengono in mente altri titoli massacrati dalla censura di stato?
“Una premessa: Salò e Ultimo tango non sono vittime della censura amministrativa, ma della magistratura, con sequestri e procedimenti penali che nel caso di Bertolucci sono culminati con un rogo degno delle inquisizioni medievali. “Salò” fu bocciato in prima istanza ma poi gli venne concesso un nulla osta con divieto ai minori di 18 anni, Ultimo tango si prese un v.m.18 con minimi tagli. Comunque i casi sono numerosi negli anni ’40 e ’50 (“Totò e Carolina” o “Le avventure di Giacomo Casanova”). Ma anche con l’avvento della nuova disciplina si sono viste cose che noi umani… Mi vengono in mente i casi di “L’ape regina” (1963) di Marco Ferreri, che osa satireggiare la morale cattolica e finisce addirittura sotto processo per oscenità, o “A mosca cieca” (1966) di Romano Scavolini, un film sperimentale (molto amato da Godard) bocciato per una breve scena in cui si vedono due amanti a letto e balena un seno nudo. L’iter di “A mosca cieca” sembra una pièce dell’assurdo alla Ionesco: il regista ricorre addirittura al Consiglio di Stato, e denuncia la totale mancanza di dialogo con i revisori. Del resto, in quel periodo, tra i film bocciati c’è perfino una riduzione dell’”Ulisse” di Joyce, per via del monologo finale di Molly Bloom!”

Nei suoi libri ricorda come la censura non significasse semplicemente tagliare qualche metro di pellicola ma addirittura rifare i film di sana pianta…
“Ad esempio si riscrivevano i dialoghi, sia per quel che riguarda i film stranieri (per dirne uno, “I cugini” di Chabrol: e qui ecco un caso di autocensura clamoroso, con il distributore Dino De Laurentiis che fa riscrivere i dialoghi stravolgendo il senso del film, prima di presentarlo in censura); o “Flesh for Frankenstein”, un horror grottesco prodotto da Carlo Ponti e diretto dall’americano Paul Morrissey, della Factory di Andy Warhol, che dopo la bocciatura viene ampiamente manipolato, con dialoghi (attribuiti a Tonino Guerra) stravolti a base di freddure, e rititolato “Il mostro è in tavola, barone… Frankenstein”.

Casi recenti oltre a Ciprì e Maresco?
Solo pochi anni fa, nel 2011 c’è stato il caso di un piccolo horror indipendente italiano, “Morituris” di Raffaele Picchio, bocciato in quanto considerato “un saggio di perversività [sic] e sadismo gratuiti”. Eppure un qualsiasi episodio della serie “Saw” è molto più tosto del film di Picchio. Il che mi fa pensare che è più facile prendersela con i pesci piccoli. In queste ore molti addetti ai lavori parlano di copiare un modello come l’MPAA statunitense per “superare” il concetto di censura, con l’Anica (Francesco Rutelli ne è appena divenuto presidente ndr) a gestirlo… “L’MPAA è chiaramente l’esempio più immediato. Negli Usa ci sono però voluti decenni perché si assestasse, e non dimentichiamo che in molti casi un ruolo decisivo è stato giocato dalle grandi catene di sale, che rifiutavano pellicole marchiate con la X e poi con la NC-17 costringendo i registi a tagliare i film, pena il rischio di un flop economico (vedi “Showgirls” di Verhoeven). E anche Kubrick ha dovuto fare i conti con la censura, oscurando i nudi nella scena dell’orgia di Eyes Wide Shut per il pubblico americano. L’autoregolamentazione è cosa buona e giusta, e in un mondo ideale sarebbe una prassi inattaccabile. Ma il discorso è molto più ampio, e gira attorno agli interessi economici, al profitto, alle strategie di mercato… Per cui, ben venga l’autoregolamentazione, ci mancherebbe. Ma non illudiamoci che da un giorno all’altro il cinema italiano torni libero e bello come quello che fu”.

Quando parla di “regole antitrust serie” per il finanziamento a nuove sale a cosa si riferisce?
“Nuove sale, ok: ma con quali film, e con quale pubblico riempirle? Il rischio è che questi stanziamenti finiscano preda dei grandi gruppi stranieri, di modo che si avranno sì più sale, ma con gli stessi film dappertutto, o quasi. E poi, oltre alla crisi economica e al passaggio al digitale (altra mazzata per i piccoli esercenti), c’è da fare i conti col mancato ricambio del pubblico, con la disaffezione alle sale, con la mancata alfabetizzazione cinematografica delle nuove generazioni, all’idea di “film d’essai” come qualcosa di sgradevole come gli sciroppi per la tosse. E si potrebbe continuare… Censura o non censura, oggi come oggi è difficile che la sala cinematografica ritrovi la centralità nell’esperienza dello spettatore. E difatti la legge non parla solo di cinema, ma di “audiovisivo”: ossia di fiction tv”.

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