La Cassazione conferma la propria giurisprudenza, questa volta in modo più esplicito: i redditi da prostituzione sono imponibili ai fini dell’Irpef, e addirittura dell’Iva “nel caso in cui l’attività sia svolta con regolarità”.

A prima vista, potrebbe sembrare una buona notizia per chi ritiene che il mestiere più antico del mondo sia da ricondurre il più possibile nell’ambito legalità, o per chi sottolinea il contributo potenzialmente positivo per le casse dello Stato.

In realtà, non vi è nulla di cui esser soddisfatti, e non per colpa della Cassazione. E’ infatti il Parlamento italiano a essere responsabile dell’assenza di regole per garantire alle persone che si prostituiscono i diritti fondamentali che dovrebbero spettare ad ogni lavoratore. I diritti sindacali sarebbero particolarmente importanti, trattandosi di una categoria esposta più di molte altre al rischio di sfruttamento (teoricamente proibito, ma in realtà incoraggiato dall’assenza di un quadro normativo per l’esercizio della professione), di abusi e violenze per un’attività che andrebbe considerata certamente tra i lavori maggiormente “usuranti” e pericolosi.

La prostituzione è un lavoro che, sul piano dei diritti, non esiste. Esiste invece sul piano delle tasse, magari per la gioia di quegli stessi Parlamentari che armano crociate contro la maternità surrogata in quanto “mercimonio” del corpo.

Se riconosciamo l’importanza delle regole – in alternativa ai divieti – per evitare lo sfruttamento di persone a rischio, dobbiamo invitare i Parlamentari a invertire il percorso: prima si garantiscono i diritti, poi si raccolgono le tasse.

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