Attualità

I social network e il grande equivoco degli analfabeti funzionali

Umberto Eco è morto. Per fortuna per lui, perché almeno non può vedere la brutta deriva che il mondo della rete ha irrecuperabilmente preso. Perché se è vero che sin da subito i social hanno dato possibilità al primo scemo che passa di dire la sua, concetto da Eco cristallizzato a futura memoria, è pur vero che l'apocalisse sta procedendo a velocità inusitate

Divertissement di Michele Monina

Umberto Eco è morto. No, fermi tutti. Non correte sui social a scrivere frasi di commiato. Roba tipo: “E adesso insegna agli angeli la semiotica del linguaggio”. È morto già da un po’. Andare a piangerlo oggi, rimarcando quanto vi mancherà, non sarebbe un bello spettacolo.

Umberto Eco è morto.
Anzi. Per fortuna Umberto Eco è morto.

Per fortuna per lui, perché almeno non può vedere la brutta deriva che il mondo della rete ha irrecuperabilmente preso. Perché se è vero che sin da subito i social hanno dato possibilità al primo scemo che passa di dire la sua, concetto da Eco cristallizzato a futura memoria, è pur vero che l’apocalisse sta procedendo a velocità inusitate e oggi c’è stato un lavoro di fino per cui lo scemo non solo continua a dire la sua ma si è unito ad altri scemi rendendo il chiacchiericcio da bar, quello che Eco indicava come qualcosa di auto-elevatosi a livello di informazione o analisi credibile, qualcosa di molto molto simile ai cori delle curve degli stadi.

Due le parabole: da una parte, appunto, il nascere di gruppi organizzati, magari sotto forma di pagine nei social, dall’altra il continuo discredito gettato nei confronti di chi fa informazione seriamente, di chi fa cultura. Credo non serva sottolineare come i giornalisti siano diventati di colpo oggetto degli strali di buona parte degli haters professionisti della rete, di come la parola “giornalaio”, usata per indicare i giornalisti, sia diventato, vai a capire perché, un insulto, al pari, del resto, di quel che era successo nel ventennio precedente con “intellettuale”.

In tutto questo, quindi, incappare in una di queste curve da stadio può essere un’esperienza antropologicamente interessante, anche se umanamente sconfortante. Se la curva da stadio in questione è poi in qualche modo legata al mondo della musica, mettetevi comodi, prendete i popcorn: la faccenda prende quasi sempre pieghe che possono sfociare nel paranormale. Perché i fan dei cantanti (e si potrebbe dire “i fan”, in generale) sono gli ultras che animano la curva se il campo da gioco è quello della musica e uniscono alla tipica deficienza di chi si ritrova al bar convinto di poter pontificare su tutto il fanatismo che fa identificare il loro idolo in una sorta di dogmatica divinità da difendere da tutto e tutti. Così succede che i commenti che si trovano sotto le recensioni possono diventare veri e propri campionari di idiozia. E questo è un esempio che mi viene facile, perché conosco “il settore” più da vicino.

C’è altro. Perché qui credo sia da fare un piccolo chiarimento. Il citare con nonchalance l’indagine dell’Istat che dimostra come il 47% degli italiani siano analfabeti funzionali ha generato un equivoco pure bello grosso. Nel senso, è vero che gli italiani sono per una buona metà analfabeti funzionali, lo dice l’Istat, ma definire semplicemente analfabeta funzionale chi si ostina a commentare un articolo partendo solo dal titolo o magari estrapolando un concetto solo su un articolo lungo e complesso, spesso un concetto distorto, è profondamente sbagliato. Non si tratta di analfabeti, ma di semplici coglioni. Così li chiamavano nei decenni passati, e ritornare a chiamarli così potrebbe rendere il confronto con questa genia più semplice.

Perché se pensi di poter commentare tutto lo scibile umano con frasi piccatissime, spesso infarcite di insulti, pensando anche di poter spiegare a tutti il loro mestiere in una lingua non intellegibile, ecco, non è la mossa più intelligente da fare. Ergo, potresti sei un coglione. Il problema è che, come succede allo stadio, appunto, la massa amplifica l’odio e questo può ingenerare quelli che tecnicamente si chiamano shit-storming. In questi casi, quando la tempesta scatenata dai ‘commentatori coglioni’ è ingestibile, non resta che una soluzione. Forse estrema ma, come insegnava Mao Zedong, la cosa da fare è una: prenderne uno per educarne cento, o almeno provarci. In pratica si sceglie un commentatore e gli risponde per le rime, a volte alzando i toni, usando il suo stesso registro. Così, seriamente, senza tanti fronzoli. Il risultato è che di colpo i commenti si interrompono, almeno per un po’ e spesso il tipo e i commentatori che sono suoi amici, si autobannano, cancellando goffamente le prove del loro passaggio sui tuoi social.

In una recente esperienza con il fanclub di una cantante, per dire, mi è capitato di incappare in un tweet che si chiedeva chi, cito tra virgolette, “cazzo è sto Monina, io conosco solo il mio prof di Storia all’università”. Ecco, a tale tweet ho risposto, seccamente, “il figlio”, scatenando una sorta di psicodramma nella studentessa del mio presunto padre, di colpo impaurita per il suo prossimo esame all’università. Con altri commentatori che, capita la situazione, cercavano di sminuire la situazione e altri che alzavano i toni, mettendo la studentessa nelle condizioni di farsela sotto. Alla fine, come da mia esplicita richiesta, la ragazza ha chiesto pubblicamente scusa. Scuse che ho accettato. Per la cronaca, mio padre è un ex tramviere di Ancona che non ha mai insegnato storia all’università, ma vaglielo a far capire che insultare qualcuno che non conosci in rete è sempre rischioso…

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