I Comitati per il No denunciano l’esondazione delle presenze del presidente del Consiglio Matteo Renzi nella campagna elettorale. Ma secondo il Sì quei dati sono falsati. Non perché l’Agcom abbia commesso errori o non abbia compreso gli interventi di qualche politico. Piuttosto perché – secondo i sostenitori della riforma- si dovrebbero conteggiare anche le opinioni dei giornalisti. Per questo ora il comitato Basta un Sì ha presentato un esposto all’Agcom contro La7 e in particolare contro tre trasmissioni (Otto e mezzo, La Gabbia e PiazzaPulita). Oggetto dell’esposto: i giornalisti in tv devono smettere di dire come la pensano sul referendum costituzionale perché così si squilibrano i conteggi della par condicio. Quelli del Sì portano due esempi, entrambi di Otto e mezzo. 18 ottobre: Mario Monti, Stefano Ceccanti e Marco Travaglio. Un paio di settimane prima, 3 ottobre, Federico Pizzarotti, Giuliano Pisapia e Antonio Padellaro. Così si viola, secondo i comitati per il Sì, un comma del regolamento della par condicio che vuole i conduttori e i giornalisti fedeli a un “atteggiamento imparziale” che “non induca surrettiziamente” i telespettatori verso una delle posizioni. Quindi o i giornalisti non esprimono la propria opinione o la tv è obbligata a invitare sempre qualcuno in quota. C’è De Bortoli? Bisogna invitare Rondolino. E se Rondolino non può, De Bortoli non può parlare. Tesi che ricordano quelle di Silvio Berlusconi e di Forza Italia quando erano al governo e sollevavano la questione della par condicio per tutti tranne che per i politici: per i giornalisti, per i comici, per gli intellettuali. Tanto che durante una campagna elettorale, nel 2004, fu rinviato un programma che parlava di un processo di mafia e dell’assassinio di Giovanni Falcone perché “manca il contraddittorio”.

E anche in questo caso, come faceva la Forza Italia del tempo, si confonde il ruolo pubblico e quello privato. Il presidente del comitato Basta un Sì che ha organizzato una conferenza stampa per annunciare l’esposto si chiama Antonio Funiciello e lavora a Palazzo Chigi perché è uno stretto collaboratore del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti. E per giunta quest’ultimo non ha la delega all’Agricoltura o all’Ambiente, ma proprio all’editoria.

Anche per questo forse Funiciello crede di avere il curriculum perfetto per firmare l’esposto contro La7: intellettuale, liberale, esperto di comunicazione e braccio destro di chi al governo si occupa di editoria. Funiciello, 40 anni, si occupa da sempre di giornali e giornalismo, pur non producendo mai informazione. Piuttosto commenta, contribuisce, interpreta, scrive lettere ai direttori e riflessioni ai quotidiani, soprattutto a quelli che poi chiudono (Riformista, Europa, Liberal), partecipa ai talk-show a colazione. Intellettuale, intellettuale, intellettuale: la parola ricorre sempre quando c’è da parlare di Funiciello. Laureato in filosofia, saggista, Funiciello ebbe però la sorte di diventare improvvisamente celebre, suo malgrado, quando scrisse su twitter che Chiara Appendino – allora sfidante del sindaco uscente di Torino – era “bocconiana come Sara Tommasi“. Poi, travolto, si scusò.

E poi liberale, liberale, liberale. L’altra parola che rimbalza quando i giornali raccontano Funiciello. La genealogia politica lo porta su su fino a Giorgio Napolitano e Giorgio Amendola e dalla parte opposta fino a Luca Lotti. Ma, prima di buttarsi nel mondo veltroniano e poi in quello del nuovo potere di Firenze, è stato per 10 anni collaboratore di Enrico Morando, da un secolo “liberal” del Pds, dei Ds, del Pd, che dopo tanto penare ha trovato piena cittadinanza nel suo partito con la vittoria alle primarie di Matteo Renzi. E’ stato Funiciello a mettere su wikipedia la foto nel profilo del viceministro all’Economia. 

Ex direttore di Libertà Eguale – associazione che riunisce un po’ di destra del Pd, da Pietro Ichino a Giorgio Tonini -, Funiciello di lavoro ha fatto tre libri e soprattutto, sempre, il consigliere. Di Morando, di Veltroni, del gruppo del Pd al Senato, del capogruppo Luigi Zanda. Ma di recente è stato anche commissario del Pd in un municipio di Roma e ai tempi della segreteria di transizione di Guglielmo Epifani è stato per poco responsabile Cultura del partito. Sostenitore quasi ante-litteram delle rottamazioni di Renzi, in uno dei suoi libri (A vita – Come e perché nel Partito democratico i figli non riescono a uccidere i padri) spiegava che il mancato ricambio generazionale del partito era dovuto era dovuto anche alla contrapposizione tra una “cooptazione meritocratica” e una “cooptazione fidelizzante”, che ha permesso che rimanessero ai vertici del partito quelli di prima.

Innamoratissimo di questioni anglosassoni, la via che vede davanti a sé è sempre la Terza, quella di Tony Blair e Bill Clinton: sul suo profilo twitter – la cui foto ritrae proprio l’ex presidente americano che suona il sax – parla molto più di elezioni americane (con una certa preferenza per il Texas) che non di referendum costituzionale. Da qualche parte su internet si può ancora trovare un appello del dicembre 2012 pubblicato dal Foglio e firmato da lui, da Morando, da Tonini e da Tommaso Nannicini. In quell’appello i cosiddetti “montiani del Pd“, allora all’opposizione interna del segretario Bersani con la corrente di Renzi, stilavano una lista delle cose da salvare dell’Agenda Monti. Tra quei quattro, Morando è viceministro, Tonini è presidente di commissione in Bilancio, Nannicini è sottosegretario a Palazzo Chigi. Per completare la cooptazione meritocratica fino a Funiciello bisogna aspettare.

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