Credo che sia il caso di ricordare tutte le volte che scriviamo o che parliamo di Siria che nel marzo del 2011 una rivoluzione pacifica al grido di democrazia e giustizia sociale scoppiò in quel paese. Una rivoluzione contro una dittatura, non bisogna mai dimenticarlo, che si ingarbugliò ben presto a causa della brutalità del regime di Bashar al-Assad che intervenne con una violenza inaudita e in seguito, la Siria divenne terreno di scontro tra potenze straniere.

Per complicare maggiormente la situazione, va ricordato che in questo quadro si innesta la questione curda e l’offensiva jihadista. I curdi con le loro aspirazioni ad avere una patria che gli era stata negata alla fine dell’Impero Ottomano nei secondi che avevano dato vita al califfato con l’obiettivo di rimettere in discussione gli accordi Sykes-Picot per la spartizione del territorio medio orientale, abbattere il regime di Bashar al-Assad e creare uno Stato sunnita, senza legami con l’Occidente e “purificato” da qualsiasi ingerenza sciita.

L’internalizzazione del conflitto con la presenza a vario titolo delle potenze straniere ha introdotto nella logica del conflitto elementi che corrispondevano ad interessi particolari degli attori. La Turchia ad esempio preoccupata che i curdi realizzino uno Stato ai loro confini, gli occidentali preoccupati degli attentati jihadisti, la Russia tesa a riprendere il ruolo di grande potenza mondiale, i Paesi del Golfo in lotta contro un Iran che aspira ad essere una potenza regionale di prim’ordine. Insomma una rivolta, quella siriana, che è nata come una rivolta contro una dittatura è diventata, passando dalla complessità creata dagli interventi stranieri, ad una semplicità disarmante: la repressione militare grazie ai russi e all’Iran di una rivolta contro una dittatura.

Ma la questione che ci poniamo è se resta qualcosa nella società siriana che non sia stata fagocitata dalla guerra, qualcosa che a che fare con la guerra perché tutto ha a che fare con la guerra in Siria, ma che esprime un’altra logica. Si tratta dell’azione dei caschi bianchi, un’organizzazione di giovani siriani che conta circa 3.000 unità che intervengono per portare aiuto alle popolazioni massacrate dalle bombe ad Aleppo, scavano tra le macerie, trasportano i feriti verso quelle poche e malandate strutture ospedaliere che esistono, rappresentano con la loro generosità una speranza presso la popolazione che non ha nulla più da sperare. Il bianco a ricordare che loro hanno preso il posto dei caschi blu dell’Onu che avrebbero dovuto giocare un ruolo di intermediazione nel conflitto siriano. Sono giovani che provengono da diverse situazioni sociali, studenti, operai piccoli artigiani, sarti ed ex combattenti. Tutti uniti da un credo: no alla violenza. Le armi sono bandite, ma non per questo si sono allontanati dalla speranza di riuscire a fare una rivoluzione. Le prigioni non sono solo un luogo ideale per reclutare jihadisti, sono servite anche ad organizzare giovani che partecipano, al costo della propria vita, alle organizzazioni dei caschi bianchi.

Nel Corano è detto che salvare una vita è come salvare l’umanità e questo motto che contraddistingue l’organizzazione dei caschi bianchi è considerato dagli oppositori come il segno che abbiamo a che fare con una organizzazione legata ai fratelli musulmani. Forse, lo vedremo, intanto sono i soli che portano aiuto alla popolazione martoriata dalle bombe russe e siriane senza distinzione di confessione.

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