Dodici ore di attesa, tre comunicati al mercato, un incontro di prima mattina con i sindacati, ore di conference call con giornalisti e analisti, il titolo ancora una volta sull’ottovolante tra sospensioni, rialzi e prese di beneficio. Questi i numeri di quello che a giusto titolo può essere definito il MontePaschi Day, anche se il consiglio d’amministrazione “decisivo” si è svolto il giorno prima, lunedì 24 ottobre. L’appuntamento, atteso da molti osservatori con il fiato sospeso, non ha in realtà portato grandi novità: il piano industriale “ritoccato” dall’amministratore delegato Marco Morelli ricalca piuttosto fedelmente quello su cui stava lavorando il precedente ad, Fabrizio Viola. E la stessa operazione di salvataggio non si discosta affatto da quanto anticipato nei mesi e nelle settimane scorse: un aumento di capitale per un massimo di 5 miliardi che – ha detto Morelli – se il mercato lo consentirà si cercherà di chiudere entro la fine dell’anno.

L’aumento che potrebbe partire subito dopo il referendum (“7-8 dicembre la tempistica ideale”), sarà anticipato dall’esercizio su base volontaria della conversione delle obbligazioni subordinate in azioni che scatterà immediatamente dopo l’assemblea ordinaria e straordinaria della banca del 24 novembre, che sarà chiamata a deliberare la copertura delle perdite pregresse, la ricapitalizzazione della banca, l’integrazione del consiglio d’amministrazione e la nomina di un nuovo presidente. Poche novità anche sul fronte del deconsolidamento dei crediti in sofferenza: si tratta di 27,6 miliardi lordi che verranno conferiti al veicolo di cartolarizzazione denominato Sec.Co per un corrispettivo pari a 9,1 miliardi di euro. Confermata anche la struttura dell’operazione e la partecipazione del Fondo Atlante che sottoscriverà le Junior Mezzanine Notes emesse dal veicolo per 1,6 miliardi. Unica novità è che Atlante non riceverà anche warrants con sottostanti azioni pari al 7% del capitale post-aumento: MontePaschi e Quaestio sgr “hanno concordato di negoziare in buona fede una misura alternativa e non diluitiva”, si legge nel comunicato. Di cosa si tratti non è ancora dato a sapersi, così come non si conoscono ancora termini e condizioni dell’operazione di conversione “volontaria” delle obbligazioni in azioni che sembrerebbe rivolta a tutti i possessori e dunque anche al retail.

A cambiare rispetto al piano presentato a luglio sarebbero le commissioni che percepiranno le banche del consorzio di garanzia che, dice Morelli, “saranno solo legate al successo dell’operazione” e saranno “più basse di quanto previsto a luglio e di quanto la banca ha pagato nel 2014 e nel 2015”. La ragione però è che a luglio si pensava di cercare 5 miliardi sul mercato, mentre ora solo una parte della ricapitalizzazione verrà da denaro fresco raccolto sul mercato: il grosso, secondo la nuova struttura dell’operazione, dovrebbe arrivare dall’operazione di conversione dei titoli obbligazionari, a cui si aggiungeranno i cosiddetti “anchor investor”, vale a dire fondi e altri investitori di matrice estera che parteciperebbero all’aumento per diventare azionisti stabili dell’istituto senese, e gli attuali azionisti che avranno un diritto di prelazione su una parte delle azioni di nuova emissione in modo da poter partecipare all’aumento evitando la diluizione della propria quota.

Sui cosiddetti “anchor investor” e su quanto siano disposti a investire, Morelli non si sbilancia limitandosi a dire che c’è stato qualche contatto con gli advisor della banca. E sul piano presentato dall’ex ministro Corrado Passera, che tanto ha scaldato il mercato nei giorni scorsi, c’è a parole la “massima apertura a considerare chiunque possa dare un contributo all’operazione e al rafforzamento patrimoniale della banca”. Un modo neanche tanto elegante per dire che se Passera e la sua cordata vogliono investire sono i benvenuti, ma che il piano messo a punto da Jp Morgan non cambia sostanzialmente di una virgola. Del resto, il tempo è tiranno: lo stesso accordo di pre-undewriting sottoscritto con le banche del consorzio scade a fine anno e resta un mese di tempo per limare i termini di un’operazione molto complessa, la cui forse unica vera chance di riuscita consiste nel rendere il più appetibile possibile la conversione delle obbligazioni strutturate in azioni.

Quanto al piano industriale 2016-2019, sembra il libro delle favole e delle buone intenzioni: dalla “piena valorizzazione della clientela attuale” al “focus sull’efficienza”, passando per il miglioramento della “gestione del rischio di credito”  per proiezioni di utili al 2018 e al 2019 di rispettivamente 978 milioni (22% dei ricavi attesi) e 1,1 miliardi (24,5% dei ricavi attesi) totalmente decontestualizzate dalla realtà dello scenario economico in cui ci muoviamo. Nel caso del MontePaschi la realtà delle cifre è purtroppo ben diversa. Il piano prevede 2.600 esuberi e la chiusura di 500 sportelli, ma i numeri a consuntivo potrebbero poi risultare significativamente diversi. Il bilancio degli ultimi trimestri, infatti, parla chiaro: nei primi 9 mesi del 2016 MontePaschi ha realizzato una perdita di 849 milioni di euro, perdita su cui hanno impattato rettifiche straordinarie sui crediti di 750 milioni di euro. In totale, nei primi nove mesi, le rettifiche sui crediti sono ammontate a 2 miliardi di euro (+42,4%), cifre che danno da pensare sull’effettivo stato dei conti di una banca che si trova in terapia intensiva da molti anni. E l’andamento gestionale non è certo migliorato. Il margine d’interesse è ovviamente calato dell’11,6% a 1,5 miliardi, mentre la raccolta diretta è calata di 14 miliardi da dicembre 2015 (-11,6%) e addirittura di 6,6 miliardi rispetto al 30 giugno scorso. “La flessione registrata nel terzo trimestre – spiega il comunicato della banca – è da ricondurre alla fuoriuscita di raccolta commerciale (vale a dire di clientela, ndr) avvenuta tra luglio e agosto, in coincidenza con le turbolenze dei mercati finanziari del comparto bancario e con la pubblicazione dell’esito degli stress test”. L’andamento fortemente negativo dell’istituto senese ha avuto anche un impatto sui coefficienti patrimoniali, riducendo il Common Equity Tier 1 all’11,49% dal 12,11% del giugno scorso. Dalla fine del 2015 il Cet1 è diminuito di 654 milioni, il Tier1 di oltre 1 miliardo, il Tier2 di 500 milioni e il Total Capital di oltre 1,5 miliardi, mentre i crediti deteriorati lordi sono ulteriormente cresciuti a 45,6 miliardi.

Insomma, una realtà molto diversa da quella scritta nel libro dei sogni che è il piano industriale approvato dal cda e che fa il paio con le criticità dell’ennesima operazione di salvataggio della banca senese. Intanto in Borsa, dopo i forti rialzi dei giorni scorsi, il titolo ritraccia violentemente (-15%, sotto quota 0,30 euro) sull’onda delle prese di beneficio e anche un po’ per la delusione dovuta all’assenza di sostanziali novità.

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