Sulle indennità non si vota ma si parla, pure troppo. Tanto che è scoppiato un caso tra Renzi e Di Maio, con colpi molto sotto la cintura. “Indennità in base alle presenze in aula” aveva rilanciato ieri Matteo Renzi sfidando con una sua proposta il Movimento Cinque Stelle che oggi porta in aula il taglio secco della metà con poche speranze di metterlo in votazione. E ingaggiando un duello personale a distanza col vicepresidente della Camera Luigi Di Maio : “Ha il 37% delle presenze in aula. Oggi Di Maio e Di Battista, come quelli del Pd, prendono il doppio di quello che prendo io come presidente del Consiglio. Allora perché non diamo a Di Maio il 37% dello stipendio?”.

Renzi però fa l’esempio sbagliato e ha ricordarglielo è lo stesso Di Maio che, a stretto giro di posta, replica: “Io ho solo il 12% di assenze, sono un vicepresidente della Camera, quando non voto, mi trovo o a presiedere o a svolgere un’altra serie di funzioni che mi vedono in missione”. Assenze, precisa, “in linea con quelle degli altri tre vicepresidenti”. Le statistiche OpenPolis lo confermano, perché nel 55% delle occasioni di voto risulta in missione.

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La prova del nove è in quel che fanno i colleghi vicepresidenti della Camera.Per assenze, lui e Roberto Giachetti (PD) se la giocano a punti: 11,1% contro il 12.4% di Di Maio, con un numero di gran lunga inferiore di missioni (5,14% contro 55,7%) compensato da uno maggiore di presenze in aula (83% contro 31,7). Migliore, rispetto a Di Maio, il dato complessivo di Marina Sereni (Pd) e  Simone Baldelli (Fi-Pdl) che risultano assenti giustificati da missione il 46,1% e 53,7% delle volte. Senza queste voci, il loro indice di presenze sarebbe, rispettivamente, del 53% e del 43%. Meglio dell’esponente 5 Stelle, ma certo non ottimale, se Renzi dovesse applicare con loro lo stesso criterio teorizzato per Di Maio. Invece, le missioni, per chi ricopre un ruolo istituzionale, sono all’ordine del giorno e abbattono necessariamente le presenze.

Chiarito l’equivoco c’è un aspetto singolare nella polemica. Non è dato sapere se la proposta di Renzi sia concreta o solo un espediente per offrire un appiglio ai tanti parlamentari decisi a mandare la palla in tribuna senza perdere la faccia. In ogni caso, anche se avesse le gambe per camminare, difficilmente avrebbe i voti per passare visto l’alto numero di assenteisti patentati in Parlamento, in ogni gruppo.

Difficilmente riceverà quello di Antonio Angelucci (Fi), il deputato più evanescente di tutti. E’ vero che si è iscritto al partito dei renziani in vista del referendum, ma è improbabile che infrangerà il suo record di 99,56% di assenze per andare a votare un’autoriduzione che gli abbasserebbe lo stipendio parlamentare da 11.283,3 lordi 49 euro al mese. Ma non ci vuole molto per scoprire che perfino tra i fedelissimi di Renzi molti hanno buoni motivi per fare orecchie da mercante.

Prendiamo il suo braccio destro, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini. L’ex sindaco di Lodi è il settimo deputato per assenteismo (593esimo su 630), il terzo nelle fila del Pd. Diversamente da Di Maio, non ha incarichi che giustifichino la sua assenza a una seduta su due (53,59%) se non per il 6,6% di “missioni” (sotto il dato OpenPolis).

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Col parametro Renzi la sua dichiarazione dei redditi che ammonta a 91mila euro, 7.583 euro al mese lorde, calerebbe di oltre la metà: 3.655 euro al mese, per l’esattezza. E il presidente del Pd? Anche Matteo Orfini avrebbe poco da festeggiare: è presente una volta sì e l’altra no: i suoi 96.306 euro dichiarati dovrebbero scendere a 48.701, poco più di 4mila euro al mese. Con queste premesse, difficile che la proposta del premier-segretario non finisca nel calderone della demagogia rovesciato oggi sui Cinque Stelle.

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