di Mariaclaudia De Gregorio *

Il datore di lavoro non può esercitare il potere disciplinare in maniera ritorsiva. Se lo fa, commette un abuso che può comportargli – così come per i casi di discriminazione  – gravi conseguenze. Anche nell’era del jobs act.

Una recente ordinanza del Tribunale di Milano offre a tale riguardo interessanti spunti di riflessione; il caso riguardava un lavoratore licenziato per giusta causa a seguito di una contestazione disciplinare risalente ad oltre un anno prima. Nella decisione in commento il giudice ha dichiarato nullo il licenziamento perché ritorsivo, condannando la società all’immediata reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Secondo il Tribunale, la circostanza che il procedimento disciplinare si fosse prolungato per oltre un anno senza l’irrogazione di sanzione alcuna era indicativa della volontà del datore di soprassedere sulla vicenda; se poi, come accaduto, il datore di lavoro aveva infine deciso di intimare il licenziamento, era per attuare una ritorsione nei riguardi del lavoratore.

Più precisamente, il licenziamento costituiva un’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore che, da qualche tempo, contestava al datore il mancato pagamento di alcune ore di lavoro oltre ad un non corretto inquadramento contrattuale.

Ed invero, secondo il Tribunale, il fatto che il licenziamento fosse stato intimato subito dopo l’inoltro dell’ennesima richiesta di regolarizzazione del lavoratore non era un puro caso, ma la prova che il datore di lavoro avesse “…del tutto illegittimamente ritenuto di poter approfittare della vecchia questione disciplinare, in relazione alla quale mai prima di allora aveva ritenuto di provvedere, utilizzandola… con finalità ritorsive…” ossia per vendicarsi rispetto alle (legittime) richieste del lavoratore.

Qual è, dunque, il regime di tutela che opera in favore del lavoratore che si venga a trovare in situazioni analoghe?

L’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori (l. n. 300/1970) prevede che il lavoratore ha diritto di conoscere preventivamente, specificatamente e per iscritto delle condotte contestategli e di difendersi entro il termine di cinque giorni. La norma in oggetto è improntata ai principi di immediatezza e tempestività, i quali devono essere rispettati in tutte le fasi del procedimento. Ciò significa che, affinché un procedimento disciplinare sia legittimo, la contestazione deve pervenire al lavoratore a breve distanza dal fatto contestatogli e che il procedimento stesso, una volta iniziato, deve concludersi in un tempo ragionevole con due possibili soluzioni: la rinuncia a procedere disciplinarmente (spesso tacita) o, alternativamente, l’irrogazione della sanzione.

Il riferimento ad un tempo ragionevole, tuttavia, è chiaramente elastico e quindi impreciso.

Come può fare allora, in concreto, il lavoratore a capire se la sanzione è giunta troppo tardi e potrebbe costituire un abuso?

Il primo consiglio è quello di guardare al Ccnl applicabile. Normalmente, i Ccnl prevedono i tempi entro cui, di regola, un procedimento disciplinare deve concludersi. Acquisita l’informazione dal Ccnl, sarà quindi possibile valutare la percorribilità delle diverse strade previste in via alternativa dall’art. 7 St. Lav. per l’impugnazione della sanzione disciplinare, tra cui anche quella del ricorso all’autorità giudiziaria.

Qualora il Ccnl dovesse tacere sui tempi del procedimento disciplinare, spetterà comunque al giudice valutare se, nel caso concreto, è decorso un tempo ragionevole tra la contestazione e la sanzione, oppure se tale periodo è eccessivo e quindi viola il principio di tempestività o, addirittura, lede il legittimo affidamento del lavoratore circa l’irrilevanza disciplinare della propria condotta.

La tempestività della sanzione è quindi un parametro fondamentale per valutare la correttezza dell’esercizio del potere disciplinare perché evita che la pendenza di una determinata questione disciplinare possa esser utilizzata senza limiti di tempo ai danni del lavoratore.

Se poi la sanzione, oltre ad essere tardiva, dovesse risultare ritorsiva, come nel caso del licenziamento trattato dal Tribunale di Milano, è opportuno precisare che la tutela prevista per il lavoratore è elevata; infatti, indipendentemente dal requisito dimensionale dell’azienda, se si accerta la natura ritorsiva del licenziamento si ha nullità del provvedimento, con conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Spetta in ogni caso sempre al lavoratore dare prova della ritorsività del licenziamento (così come di ogni altro provvedimento), dimostrando che è consistito in una ingiusta e arbitraria reazione ad un suo comportamento legittimo. Sarà possibile fare ricorso ad elementi indiziari che, complessivamente valutati, rivelino un comportamento ritorsivo a danno del lavoratore.

E’ tuttavia doveroso precisare che non sempre tardività è sinonimo di ritorsività. Ci potrebbero essere dei casi in cui la tardività del licenziamento sia dovuta solo ad una negligenza del datore di lavoro che si attarda nel procedere alla sua irrogazione senza tuttavia perseguire alcun fine ritorsivo ai danni del lavoratore.

In tal caso il licenziamento sarà comunque valido e le conseguenze per il suo ritardo sensibilmente più blande.

Il lavoratore, difatti, non avrà diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ma soltanto a percepire una (modesta) indennità risarcitoria per la violazione del principio di tempestività nel procedimento disciplinare di cui all’art. 7 St. Lav. L’ammontare dell’indennità varia a seconda del regime di tutela temporalmente applicabile al lavoratore (regime Fornero ex l.92/2012 o regime Jobs Act ex d.lgs 23/2015) e del requisito dimensionale dell’azienda.

* Giuslavorista. Sono una giovane professionista abilitata di recente all’esercizio della professione forense. La mia passione per il diritto del lavoro risale all’Università. Ciò che amo di questa branca del diritto è l’umanesimo che la caratterizza, il suo profilo assistenziale e la sua grande attualità.

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