Ci sono eventi che riconciliano con il mondo. Parlo di eventi estranei ai propri percorsi professionali, sentimentali e, se proprio è il caso, politici. Eventi pubblici, spesso inattesi, che diventano subito privati e personali. Per chi scrive, lo scudetto della Sampdoria nel 1991: un traguardo al quale mai, pensavo, potesse ambire la squadra del mio cuore. E il Nobel a Bob Dylan fa parte di questa ristretta categoria. Mi sono quindi permesso un post molto personale e i lettori che mi seguono per le questioni ambientali, formative e sociali di cui parlo normalmente, possono tranquillamente chiudere qui.

Amo Dylan dal 1965, quando acquistai i suoi primi album. Ero stato invogliato dal famoso articolo di Melody Maker del gennaio di quell’anno: «Beatles say: Dylan show the way». Ma lo feci soprattutto perché, a quell’età, amavo la poesia di Dylan Thomas, pur se l’attribuzione del nome d’arte all’ammirazione per il poeta gallese appare dubbia: «Se avessi cantato le poesie di Dylan Thomas, avrei cambiato nome più semplicemente in Thomas» disse un giorno Bob a un giornalista di Playboy.

Il verdetto svedese è stato criticato da molti personaggi, soprattutto nell’ambito, assai ampio e variegato, degli addetti ai lavori. Da Irvine Welsh a Joice Carol Oates e Anna North, che fa pure l’editorialista per il New York Times, dove non ha nascosto il proprio disappunto; e, in Italia, parecchi scrittori hanno deprecato l’evento, da Alessandro Baricco a Bruno Morchio fra tanti. Gli accenti vanno dalla competenza disciplinare (Dylan non ha nulla a che fare con la letteratura) alla chiosa storica (premio nostalgia mal concepito, strappato dalla prostata rancida di vecchi hippies farfuglianti) fino all’invettiva (una c… pazzesca). Non tutti, invero, poiché scrittori e poeti come Salman Rushdie, Kate Tempest e Andrew Motion hanno apprezzato la decisione  dell’Accademia.

Per alcuni versi, le reazioni al Nobel per la Letteratura del 2016 ricordano quelle del 1997, quando fu Dario Fo a essere premiato. Senza arrivare all’indignazione espressa dalla rivista Studi Cattolici, diretta da un membro dell’Opus Dei, Cesare Cavalleri, furono mitiche le reazioni di ‘nobelisti’ mancati come il poeta Mario Luzi, al quale fu conferito il Tapiro d’Oro per le sue veementi esternazioni del tipo: «Uno schiaffo alla cultura italiana». E quelle di ‘nobelisti’ immaginari come Fruttero e Lucentini: «Lì per lì verrebbe da ridere, per il Nobel alle farse di Dario Fo». Bravi poeti e bravi scrittori, ma confinati entro orizzonti un po’ ristretti.

Riconosco senz’altro valide le motivazioni dell’accademia svedese e tutte le altre messe in campo dai difensori del Nobel a Dylan. Per me, c’è un’ulteriore motivazione, assai semplice: aver ricondotto la grande poesia sulle vie della metrica e della rima, che per un secolo intero i grandi poeti avevano smontato e frammentato, spesso con sublimi risultati ma talora con esiti incerti. Metrica e rima sono le molle della nostra memoria che, se qualche volta si mescola alla nostalgia, diventa uno strumento di consolazione e non fa male a nessuno. E c’è anche la piccola illusione che in questo premio ci sia una minuscola goccia di riconoscimento alla poesia di Thomas, che non fu mai candidato a quel premio.

Pochi giorni fa, durante il secondo weekend del festival californiano di Desert Trip, Dylan ha cantato Like a Rolling Stone, un pezzo che non cantava in pubblico da tre anni. L’ultima volta lo aveva fatto a Roma nel novembre 2013. E ogni tanto ha perfino sorriso.

Questo post è dedicato alla memoria del mio amico più grande, Roberto Odone, insegnante e divulgatore, con cui ho anche condiviso per 50 anni la passione per la poetica di Bob Dylan.

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