“Le istituzioni europee hanno bisogno di tornare a lavorare insieme per riconquistare la fiducia dei nostri cittadini. Dobbiamo essere molto più aperti in tutto ciò che facciamo”. Con queste parole, il 28 settembre, il vicepresidente della Commissione Europea Frans Timmermans ha presentato la proposta di revisione per un registro europeo delle lobby “obbligatorio”, cominciata al Parlamento europeo il 5 ottobre. Secondo Alter-EU, network di ong europee per la trasparenza, la proposta della Commissione è lontana anni luce dai suoi propositi. “Non c’è nulla di obbligatorio – spiegano a ilfattoquotidiano.it Myriam Douda e Margarida Silva, esponenti di Foe e Corporate observatory Europe, due osservatori della galassia di Alter EU -, il testo è come un accordo tra istituzioni, non è una normativa, quindi non potrà mai essere imposta al di fuori”. Quindi i lobbysti sono liberi da alcun vincolo. Un limite, per le ong, perché questo impedisce di rendere efficace l’iscrizione al registro, che a cui oggi si accede solo su base “volontaria”. A chi non si iscrive è proibito solo incontrare i 250 ufficiali più importanti della Commissione: alti funzionari e commissari. Una norma introdotta circa due anni fa, molto importante secondo le ong che si battono per maggiore trasparenza, e che ha contribuito di certo a spingere il numero delle iscrizioni nel registro, passate da poco più di 4mila nel 2012 a quasi 10mila nel 2016. Ma nulla ha potuto per evitare che le pressioni dei gruppi di interessi si esercitassero su assistenti e collaboratori dello staff dei commissari, che continuano ad essere bersagli raggiungibili. E chi lo fa senza iscrizione non incorre, ovviamente, in nessuna sanzione: non c’è nulla di obbligatorio. “La cosa che ci spaventa di più è che in questo registro non erano nemmeno iscritte le principali lobby che hanno condotto le trattative per il TTIP”, spiegano Douda e Silva.

UNA NUOVA DEFINIZIONE DI LOBBY – Non solo la nuova proposta di registro non sana i vecchi problemi. Ne crea anche di nuovi, secondo Alter-EU. Il più grosso è l’introduzione di una nuova definizione di attività di lobby. Prima era considerata “qualunque attività condotta allo scopo di condizionare – direttamente e indirettamente – le decisioni politiche, la legislazione e l’implementazione delle policy al Parlamento europeo e alla Commissione europea, non importa condotte con quale metodo a attraverso quale canale di comunicazione”. Ma a qualcuno questa definizione non piaceva. Nelle consultazioni pubbliche che durate da marzo a giugno per la ristesura del nuovo codice, alcune lobby hanno fatto – legittimamente – sentire la loro voce. DigitalEurope, ad esempio, un consorzio che rappresenta i big dell’industria high-tech (come Airbus, Amazon, Apple, Blackberry, Canon, Google, Microsoft) ha dichiarato di voler restringere la definizione. Così si è arrivati a questo: “’Fare lobby’ significa promuovere specifici interessi attraverso una comunicazione con un pubblico ufficiale come parte di un’azione strutturata e organizzata che ha lo scopo di influenzare i decisori pubblici”. Così si tagliano fuori i think tank o gli altri gruppi che creano opinione e che secondo le ong sono tra i principali attori del mondo delle lobby. In più diventa lobbying solo l’attività fatta attraverso incontri e comunicazioni ufficiali.

“NESSUN CONTROLLO” – “Lo staff che vaglia i dati inseriti dalle lobby che si registrano è composto da 3-5 persone – proseguono le due ricercatrici di Alter-EU – quindi i lobbysti sanno che non ci può essere controllo su ciò che inseriscono”. Per dare un termine di paragone, il registro delle lobby canadese, a cui sono iscritte 3.500 lobby, ha uno staff di controllo di 28 persone. Si spiegano anche così alcuni risultati a dir poco bizzarri. Ad esempio, l’università di Oslo appare al secondo posto assoluto tra le lobby più potenti d’Europa per euro investiti: oltre 847 milioni. Eppure non ha mai incontrato un parlamentare, né ha dipendenti accreditati per entrare alla Commissione. Un dato che pare più verosimile come budget complessivo dell’università, tenendo conto che la lobby che spende di più in Europa, il Cefic, organismo di cui fanno parte 670 giganti della chimica del calibro di Bayer, BP e Total, arriva a 10 milioni.

LA CLASSIFICA DELLE LOBBY ITALIANE – Anche la classifica delle lobby italiane riserva sorprese. Ai primi due posti secondo la voce “spese per l’attività di lobby” compaiono Porta Futuro di Roma (3,2 milioni) e il Dipartimento di Epidemologia della Regione Lazio (2,8 milioni): nessuno dei due ha mai incontrato un parlamentare europeo. Evidentemente un errore nella compilazione del form per iscriversi al registro, come nel caso dell’ateneo di Oslo. In realtà, invece, calcola il sito LobbyFacts.eu, Enel spa è la ventesima lobby più potente d’Europa. Accanto ai 2-2,3 milioni di euro spesi in un anno per questa attività (altro limite del registro: non vanno indicate le cifre precise, bensì indicative) ci sono 10 persone accreditate per entrare al Parlamento europeo e 21 incontri organizzati con membri della Commissione, a cui si aggiungono anche uffici a Bruxelles. Ci sono poi aziende che oltre a fare lobby per sé fanno pesare la loro voce attraverso consorzi di lobbysti, come nel caso di Unicredit, che fa parte anche della European Banking Association, tra le più influenti nel gruppo delle banche. Gli altri big italiani con uffici a Bruxelles che rappresentino i loro interessi, e che quindi possono a pieno titolo rientrare nell’Olimpo delle lobby europee, compaiono anche Finmeccanica-Leonardo, Mediaset, IntesaSanPaolo, Cassa Depositi e Prestiti, Fastweb e Telecom Italia, con una spesa media per il lobbying che si aggira tra i 150mila e i 500mila euro l’anno.

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