Quando nel 2009 pubblicai, con Chiarelettere, Adesso basta, nessuno avrebbe scommesso che nel 2016 quel saggio avrebbe venduto ancora copie, con regolarità, continuando a far discutere tra favorevoli e contrari e ispirando l’uscita di decine e decine di testi di analogo contenuto. Qualcuno mi disse perfino: “Ma come, qui la gente perde il lavoro e tu scrivi un libro su come lasciarlo?! Ma sei impazzito?!”. Oggi scopriamo invece che nella produttiva Berlino viene creato il Zentrum für Karriereverweigerung, “Centro per il rifiuto della carriera”, pensatoio che, pur senza avere metodi da proporre, sente l’esigenza forte di pensare in modo critico a modalità, contenuti ed esiti della nostra vita, del lavoro e delle relazioni in piena crisi da post-capitalismo. Il tutto sulla scorta di un libro uscito due anni fa, scritto da una ex giornalista e addetto stampa dell’Spd, Alix Faßmann, dal titolo tanto lungo quanto esplicito: Arbeit ist nicht unser Leben: Anleitung zur Karriereverweigerung – “Il lavoro non è la nostra vita: guida al rifiuto della carriera”. Si ammetterà che noi eravamo stati più sintetici.

Quella che qualche doloso distratto volle bollare come l’esperienza naif di un ex manager stanco, e che una moltitudine di italiani ha invece letto e preso per serio, era dunque un ragionamento assai poco individuale, sintomo di una condizione diffusa. In piena epoca di dibattiti su lavoro dell’uomo e automazione, tempo del lavoro e disoccupazione, reddito di cittadinanza e giovani che non studiano né si impiegano, la condizione di vita reale della nostra società perde pezzi importanti, a partire dalla testa. I primi a realizzare che il gioco olistico del benessere, così come è impostato, non vale la candela, sono infatti i dirigenti, i quadri intermedi, quelli che dovrebbero credere più di altri alla prosecuzione del sistema, adoperandosi per sostenerlo con la propria spalla. Ma attenzione, non solo loro. Così come a rifiutare le rigide leggi della produttività innanzitutto, del denaro come sovrano delle scelte, si rivelano essere non solo gli indolenti italiani, ma anche i rigorosi tedeschi, a lasciare per qualsiasi altro stile di vita, purché diverso dall’attuale, risultano essere anche gli impiegati, i commessi, e quello che un tempo si sarebbe chiamato sottoproletariato industriale.

La promessa che già nel primo decennio del nuovo secolo si era rivelata non mantenibile, sembra perdere ulteriormente di credibilità. La crisi economica non è congiunturale ma strutturale; il sistema del lavoro che doveva assicurare a tutti un’occupazione non mantiene la parola data, e drena solo vertici o manovalanza; il miraggio di avere una casa, un’auto, e del tempo libero per potersi godere il frutto delle proprie fatiche, già compromesso, si rivela in costante allontanamento dalla realtà della maggioranza; il digital divide e le scuole manageriali di consulenza anglosassoni operano una spaccatura tra pochissimi destinati a governare i processi e una moltitudine costretti ad applicare o a subire; l’allontanamento periodico (e premeditato) dell’età pensionabile rende incerta tanto la previdenza quanto la possibilità di goderne in tempi utili; l’afflusso di migranti complica ulteriormente le cose, in un modo che è stato del tutto sottovalutato dagli analisti.

Ben fanno i tedeschi a pensare come operare un cambio di direzione. Chi non elaborerà un modello alternativo sarà condannato a vedere fuggire i migliori, e accanto ad essi tutti coloro che restano ancora legati a una semplice idea: non si può vivere per lavorare, a qualunque costo, per sempre. O almeno, non lo si può fare vivendo così male. O almeno, si desidererebbe vedere nei politici che ci governano una consapevolezza circa questa condizione che, a sentir parlare il Premier di zero virgola su crescita e occupazione, non pare alle porte. Serve un nuovo modello di sviluppo e di coesistenza. Soprattutto, servirebbe qualcuno che dà l’idea di accorgersene e di lavorare per trovarlo

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