Nella prima decade di ottobre cadono parecchi anniversari di disastri alluvionali, non soltanto quello del Vajont. Il giorno 8 ottobre 1970 Genova fu devastata da una delle più severe alluvioni della sua storia, provocata dalla esondazione di uno dei suoi torrenti, il Bisagno. Non la più severa, perché quella del 1822, descritta da Mary Shelley, e quella del 1452, narrata dal vescovo Agostino (nato Pantaleone) Giustiniani, furono ancora più severe per intensità dell’evento idrologico. Ma senza dubbio fu la più rovinosa, giacché incontrò a valle un manufatto costruito a regola d’arte sotto il profilo strutturale, ma del tutto sbagliato sotto quello idrologico: la copertura del tratto finale del corso d’acqua.

L’opera è incapace di convogliare le massime piene, le cui acque inondano perciò la città, coinvolta in una vicenda durata tutto un secolo. Nella prima metà fu a lungo discussa e finalmente deciso e poi realizzato con piglio fascista –ardito e fururista– la canalizzazione ristretta con la copertura stradale del torrente. Nella seconda i genovesi iniziarono ad apprezzare le conseguenze di quel lavoro, con lutti e danni che hanno continuato a funestare la città nel nuovo secolo (la foto si riferisce all’alluvione dell’ottobre 2014).

Ho raccontato la vicenda del Bisagno, il fiume nascosto –ovvero sepolto– in un lungo saggio e non si può condensare in un breve post tutta la storia. Uno psicodramma che non smette di torturare i sogni dei genovesi con sfaccettature spesso sorprendenti, come emerge a ogni dibattito pubblico. E che meriterebbero qualche riflessione sulla logica con cui questo paese affronta la difesa dalle alluvioni, tra proclami e invettive, emergenze e oblio, iniziative lodevoli (come il database e le recenti linee guida di #italiasicura) e velleitarie promesse dall’esito incerto, per via delle priorità di bilancio.

È stata da poco avviato, in pompa magna, l’inizio lavori dell’ultimo lotto di ricostruzione della copertura, che viene rifatta un po’ meglio della vecchia e migliorerà un pochino la situazione, ma secondo una continuità culturale imbarazzante: un solaio cieco con quattro ‘canne’ larghe come le vecchie. E vale la pena di ricordare ancora una volta la Relazione conclusiva della Commissione De Marchi per la Difesa del Suolo, licenziata nel 1970, dove si affermava che «non dovrebbero essere tollerati il silenzio o le spiegazioni monche, distorte o evasive, sulle difficoltà e sugli insuccessi delle opere d’ingegneria». In attesa che venga costruito lo scolmatore atteso da 46 anni.

Malasorte è una circostanza imponderabile, terribilmente casuale, come la vicenda della moglie di Anselmo colta dall’alluvione proprio nel momento in cui va a consumare il proprio tradimento coniugale, il giorno 8 ottobre 1970. Il racconto musicale di Fabrizio de Andrè, Dolcenera, ha reso immortale questa donna. Non è soltanto malasorte, invece, se pubblico e privato, governanti e governati, architetti e ingegneri non hanno selezionato in modo prudente gli obiettivi del disegno urbano e considerato con cura le alternative progettuali, né previsto gli effetti e le conseguenze dell’opera dell’uomo.

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