La riforma costituzionale del governo Renzi che il 4 dicembre sarà sottoposto a referendum ha in sé il rischio di possibili conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato e organi di rappresentanza. Conflitti che, a detta di diversi costituzionalisti, sono poco risolvibili e rendono il processo legislativo più complicato e farraginoso di quanto sia attualmente. Del resto basta confrontare il testo dell’articolo 70 attualmente in vigore, nove parole chiarissime (“la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”) contro un nuovo testo tortuoso e incomprensibile. Insomma, invece di semplificare le cose, la riforma le complica.

I conflitti principali possono generarsi tra Stato e Regioni, ma anche tra Camera e Senato e perfino tra presidente del Consiglio e presidente della Repubblica. “Non va dimenticato, infatti, l’intreccio tra modifiche della Costituzione e legge elettorale che in pratica sottoporrà al ballottaggio due nomi restringendo il ruolo del presidente della Repubblica. Ma secondo la Costituzione è ancora il capo dello Stato a dare l’incarico di formare il governo in autonomia e non necessariamente nella persona indicata”, sottolinea Alfiero Grandi, sindacalista ed ex sottosegretario, oggi uno dei rappresentanti del Comitato del No.

Conflitto tra Stato e Regioni
La riforma è nettamente centralista e riporta nelle mani dello Stato compiti e funzioni che prima erano assegnati agli enti locali e alle Regioni con la riforma del Titolo V del 2001. Dall’articolo 117, per esempio, scompaiono le materie a legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Al potere centrale torna la totale competenza, tra le altre cose, su protezione civile, produzione di energia, infrastrutture e grandi reti di trasporto, porti e aeroporti civili, ordinamento delle professioni. Alcuni di questi temi, specie quelli che incidono sulla vita delle realtà locali, possono essere impugnati da Regioni e Comuni. Il caso di scuola sono le trivellazioni in mare: lo Stato ha deciso per le trivellazioni, gli enti locali hanno contestato la norma e si è arrivati al referendum (poi fallito). Con l’approvazione della riforma la possibilità di questo tipo di conflitto non viene risolta. Il governo ha previsto di avere comunque l’ultima parola nelle opere pubbliche o private dichiarate d’interesse nazionale, sul modello della Tav. “Probabilmente il sequestro dei poteri non è sembrato abbastanza e così si è preferito mettere questo catenaccio finale. Senza dimenticare che ci sono alcune materie non regolate, tutt’altro che secondarie, che creeranno altro contenzioso”, osserva Grandi.

Inoltre, il fatto che, oltre al Senato regionale, continui a esistere anche la conferenza Stato-Regioni, può generare non solo confusione, ma veri e propri conflitti di attribuzione. “Del resto il Senato non è la camera delle regioni, come in Germania, e tanto meno rappresenta i governi locali, quindi la conferenza Stato-Regioni ha ragione di continuare a esistere”, spiega Grandi. Oltretutto per molti di questi possibili conflitti non ci capisce chi sarà a dirimere la questione. Insomma, il rischio è quello di arrivare alla paralisi.

Se al Senato spetta il compito di stabilire le norme generali e poi alle Regioni di deliberare sul particolare, la riforma non risolve il vecchio conflitto che spesso si generava tra Stato e Regioni. In passato la questione era risolta elaborando un testo unico, che ora è di più difficile composizione. In conclusione, il ritorno al potere centrale dello Stato e la fine del federalismo (all’italiana) e della sussidiarietà non facilita le cose ma le complica, perché la contestazione è sempre dietro l’angolo.

Conflitti tra le istituzioni
Aumentando i percorsi che una legge può seguire nel suo iter parlamentare (da uno si passa ad almeno dieci), crescono anche i casi in cui si può contestare il percorso scelto. In questo caso si genera un conflitto di assegnazione tra Camera e Senato: una delle due può contestare la competenza e la decisione dell’altro su una certa materia. Palazzo Madama, per esempio, in diversi casi può richiamare una legge approvata a Montecitorio, ma basta che ne facciano richiesta un terzo dei senatori per richiamarle tutte. “In questo caso mentre i tempi di approvazione di una legge sono attualmente 62 giorni, in futuro la Camera resterà ferma fino a sei mesi se il Senato chiederà di riesaminare una determinata legge”.

La riforma, inoltre, è stata pensata con maggioranze uniformi al governo e nelle Regioni. Ma se la maggioranza è difforme (per esempio, centrosinistra a Palazzo Chigi e centrodestra nelle regioni), a quel punto si avrebbe un Senato (95 senatori su 100 sono nominati dai consigli regionali e dalle province autonome) con un orientamento politico diverso dal governo centrale, con il potere di richiamare molte leggi. Palazzo Madama quindi può mettere seriamente i bastoni tra le ruote al processo legislativo. Poi c’è il capitolo delle leggi bicamerali. In alcuni casi l’attribuzione è lasciata alla decisione dei presidenti di Camera e Senato. Ma la riforma non dice cosa fare se i due presidenti non si mettono d’accordo.

Altri conflitti
Al Senato è lasciato il compito di esprimersi sulle questioni europee. Ma qui può sorgere un problema di costituzionalità, perché Palazzo Madama non sarà espressione diretta della sovranità popolare, ma lo è solo in secondo grado, anche se con la promessa di approvare una legge che lascerà agli elettori la possibilità di indicare i futuri consiglieri-senatori.

Un altro conflitto si può generare sull’elezione del presidente della Repubblica. La riforma, infatti, non prevede una norma di chiusura dell’elezione, perché dal quarto scrutinio in poi è prevista la maggioranza dei tre quinti invece dalla maggioranza assoluta, mentre dal settimo scrutinio si passa alla maggioranza dei tre quindi dei votanti. E senza maggioranza assoluta una fronda all’interno della maggioranza ha potere di interdizione su qualsiasi candidato.

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