Che la cosiddetta street photography sia molto in voga è sotto gli occhi di chiunque si occupi, anche minimamente, di fotografia.

La faccenda m’interessa e m’intimorisce nello stesso tempo. E mi preoccupa pure un po’.
M’interessa perché analizzare i trend aiuta qualche volta a capire cosa bolle in pentola, e la pentola siamo noi.

M’intimorisce perché se mi chiedete cos’è la street photography io non vi so rispondere.
Mi preoccupa un po’ perché quando qualcosa di nobile dilaga rischia spesso di svilirsi.

La fotografia di strada non accetta definizioni, canoni, stilemi, motivazioni dichiarate. E’ sempre esistita da anarcoide senza necessariamente chiamarsi street photography; ogni diverso libro di storia della fotografia la vede nascere con questo o quel fotografo, in questo o quel periodo, in questo o quel Paese. In attesa del prossimo libro che dica altro.

Qualcuno asserisce che la differenza tra reportage e street sarebbe la progettualità, presente nel primo e assente nella seconda. Secondo quest’interpretazione è reportage solo quello di chi dice: ”Domattina vado a documentare il lavoro nelle miniere del Sulcis e ci sto due mesi”.  Chi invece s’immerge nell’imprevedibilità di un luogo vissuto e ne prende regali sotto forma di frammenti e istanti sarebbe in sostanza, nella migliore delle ipotesi, uno sfaccendato di talento.

E allora viva tutti i flaneur “sfaccendati di talento” di ieri e di oggi, come Henri Cartier-Bresson, William Klein, Sergio Larrain, Lee Friedlander, Garry Winogrand, Bruce Gilden, Alex Webb, e i tanti altri che ci hanno offerto potentissimi affreschi di intere società deambulando qua e là. Il progetto c’era eccome, ma non era un argomento delimitato, bensì la restituzione personale di un mondo. Mondi e società da capire in trasparenza osservandone facce, abitudini, vestiti, edifici, mercati, automobili, strade, strade, strade.

Ma c’è un piccolo enorme dettaglio: ogni tessera di quel mosaico, ogni singola foto che oggi si definirebbe street photography (anche all’insaputa degli autori stessi), era formidabile. Si può uscire tutti i giorni nella propria città per anni, fotografare senza un “mitico progetto” se non quello di soddisfare la curiosità e giocare col caso, ma se un giorno si selezionerà il meglio di tutto questo, si saprà editarlo, e se tutto racconterà con uno stile e una visione coerenti la vita che pulsa in quella città, poco importerà definire il risultato street photography o reportage, poco importerà stabilire se c’era un progetto o meno. L’unica cosa veramente essenziale e dirimente sarà – toh! – la qualità del risultato. E qui casca l’asino e pure la street.

Purtroppo, va detto, molta parte di questa ”onda street” che da qualche tempo monta spumeggiando, è qualitativamente assai modesta, tirata via e immatura. La fotografia di strada viene percepita da molti entusiasti quanto acerbi fotografi come facile (e qui c’è anche lo zampino del marketing, sia di fotocamere che di smartphone). Facile? Facile? Ma è la sfida più difficile, azzardata, aleatoria, estrema e per questo avvincente tra tutte le maniere di declinare l’atto fotografico. Inutile dire che, per la legge dei grandi numeri, tra tanti risultati deboli che soprattutto in rete è dato vedere, spiccano anche talenti ed eccellenze che lasciano estasiati.

Ma ora – colpo di scena – quando ormai sembrava stessi “smontando” l’attuale fenomeno street photography che tra collettivi, blog, workshop, contest, siti dedicati, manuali, mostre, sta conoscendo questo suo momento  di grande – troppo grande? – interesse, ebbene eccomi a dire che il lato positivo di tale esplosione supera di gran lunga le riserve fin qui sbobinate.

D’accordo, l’approccio è spesso superficiale con risultati discutibili, la consapevolezza latita, ma tutto sommato quello che ci vedo dietro come motivazione, al netto di qualche ingenuità o della ricerca di scorciatoie, è una grande voglia di ributtarsi nella mischia. Un’urgenza quasi fisica di schiodare le chiappe e gli occhi dal monitor di un computer per non continuare a guardare da zombie le foto degli altri nel chiuso di una stanzetta.

Come dire: “Adesso basta, spengo il computer e mi compro una bicicletta”. E non sembri irriverente il paragone bicicletta-macchina fotografica: entrambe sono strumenti utili alla scoperta del mondo. Entrambe ci rendono finalmente e nuovamente vivi, attenti, pronti, dinamici, aperti. Entrambe ci ricordano che oltre alla testa abbiamo un corpo. Entrambe ci fanno entrare in contatto col vento.

Insomma, la voglia di strada, al di là dell’illusione autoriale che abbaglia molti, è cosa sana. La voglia di strada è voglia di vita. Obbliga ad affrontare e valicare la barriera tra privato e pubblico, tra sé e gli altri – al diavolo l’incubo privacy – sia pure con un atteggiamento mai fino in fondo empatico, ché una certa dose d’individualismo è scritta comunque nel dna del fotografo.

La fotografia di strada tira fuori davvero la natura del fotografo, è una cartina al tornasole (ma che bella parola “tornasole”) che ne rivela il Ph (iniziali di photography): acido, basico, aggressivo, timido, poetico, spietato, dolce, esatto, visionario. Io non so cosa sia la street photography, ma la amo.

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