Hanno avuto un certo rilievo nella stampa le recenti esternazioni di Raffaele Cantone sui presunti episodi di corruzione nelle nostre università. La corruzione è il reato per cui un pubblico ufficiale “per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa”, ed io ritengo che nelle università sia un fenomeno raro, soprattutto alla luce del fatto che le condanne sono poche (al contrario di quanto accade in altri comparti dell’amministrazione pubblica).

Il Dott. Marco Bella ha interpretato che la lettura corretta delle esternazioni di Cantone fosse da collegarsi al nepotismo, piuttosto che alla corruzione, ed ha citato studi e articoli che dimostrano la scarsa consistenza del fenomeno. Molti però hanno fatto notare che il caso dell’Università è di una fattispecie diversa, dal nepotismo classico, la “tendenza a favorire i propri familiari nell’assegnazione di uffici e incarichi”. Il nepotismo accademico consiste nella tendenza del professore commissario di concorso a favorire i suoi allievi.

Che gli allievi interni siano in qualche misura avvantaggiati certamente accade, ma in genere non costituisce un reato, ed è anzi implicitamente previsto dalla normativa. I bandi di concorso delle Università prevedono infatti che sia richiesto un profilo del candidato, corrispondente alle attività di ricerca che il Dipartimento persegue, ed è ovvio che il candidato interno al Dipartimento, proprio perché stava lì, avrà perseguito le attività richieste. Il pubblico sottovaluta la specializzazione della ricerca moderna e assume che qualunque Dipartimento abbia tutta la strumentazione e le dotazioni per affrontare qualunque problema e qualunque tematica inerente alla disciplina che persegue. Non è così, e se un Dipartimento non dispone di una certa strumentazione, nei suoi concorsi esclude questa specialità dai profili richiesti (a meno che non programmi di espandersi in questo campo).

Tutti i candidati che si presentano ad un concorso universitario hanno già svolto attività di ricerca, sono allievi di qualche docente ed hanno un loro profilo professionale; poiché sono in maggioranza persone valide, in possesso di una abilitazione scientifica nazionale, la coerenza tra il profilo e l’attività del Dipartimento, che favorisce i candidati interni, è spesso il criterio discriminante. Ovviamente può accadere che un candidato esterno abbia un profilo corrispondente a quello richiesto e in questi casi può vincere il concorso; ma è difficile che i candidati esterni col profilo giusto siano in maggioranza e ribaltino la statistica. A causa della specificità delle attività di ricerca dei Dipartimenti, tendono spesso a formarvisi delle Scuole, che sono motivo di vanto per il sistema. In ultima analisi, il nepotismo accademico si presta ad abusi, ma non è necessariamente disonesto.

Per il Dipartimento la scelta del candidato interno ha il vantaggio aggiuntivo di assicurarsene la presenza. Fino al 1994 i concorsi erano nazionali ed accadeva spesso che ad alcuni vincitori di concorso venissero attribuite sedi non desiderate. Si veniva a creare la categoria dei “professori volanti” che raggiungevano la sede col primo aereo del lunedì mattina, concentravano tutte le lezioni della settimana nella stessa giornata e tornavano a casa con l’ultimo aereo del lunedì sera, per ritornare poi la settimana successiva. Negli altri giorni della settimana facevano ricerca ospiti del laboratorio di provenienza. Questo comportamento, sebbene non illegale, era poco funzionale alle esigenze della struttura e degli studenti e lo scopo del concorso locale è di evitarne il ripetersi. All’estero questo non accade perché il sistema rende in genere attrattiva la mobilità, ad esempio offrendo al candidato che si trasferisce il finanziamento necessario per mettere su il suo nuovo laboratorio. La scarsa mobilità non è un reato e non c’entra con la corruzione: è un problema, la cui soluzione si può copiare dall’estero.

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