E’ guerra alle mense scolastiche. La sfida tra i pro panino e i contrari alla “schiscetta” nata a Torino grazie ad un tenace gruppo di famiglie che hanno portato il caso davanti ai giudici, è diventata un caso nazionale. La sentenza della Corte d’Apello che ha affermato il diritto a consumare a scuola il pasto portato da casa ha aperto una breccia negli uffici del Ministero, degli uffici scolastici regionali e anche in quelli dei presidi che fino ad oggi non hanno, nella maggior parte dei casi, preso in seria considerazione la questione mensa. Ma perché si è arrivati a questo punto?

Partiamo da un dato: la mensa fa parte dell’attività d’insegnamento. Lo stabilisce l’articolo 28 del contratto nazionale della scuola quando cita: “Per il personale insegnante che opera per la vigilanza e l’assistenza degli alunni durante il servizio di mensa o durante il periodo della ricreazione il tempo impiegato nelle predette attività rientra a tutti gli effetti nell’orario di attività didattica”.

Tradotto: il tempo trascorso a pranzare in un locale adibito a tale scopo dovrebbe essere considerato da tutti come quello in aula. Ma non è così. Chi è quel docente che mentre i bambini mangiano tutti insieme, nel caos più totale che si crea quando si mettono a tavola settanta/cento persone nello stesso locale, riesce a raccontare da dove viene la banana che stanno gustando?

Non è così nemmeno a livello legislativo. Secondo il Ministero il rapporto tra alunni/docenti in mensa dovrebbe essere quello che c’è in classe stabilito dal DPR 81/2009 ovvero un numero di alunni non superiore a 29 all’infanzia; inferiore a 15 e non superiore a 26 alla primaria e con non meno di 18 e non più di 27 alunni alla secondaria di primo grado. Spesso questo non accade e in mensa ci si ritrova un numero ingestibile di ragazzi senza poter garantire la loro sicurezza.

Chiarita la filosofia di fondo perché le mamme e i papà pro panino sono arrivati a questo punto?

Basterebbe farsi un giro nelle mense per capire. Io l’ho provata da anni, in scuole diverse. La prima sensazione che si ha quando ci si siede al tavolo di una mensa e si guarda in faccia il piatto e sempre la stessa: tristezza. Ho mangiato minestrine stile casa di riposo per un inverno intero, paste alla ricotta dove la ricotta era più che altro un ricordo, creme di legumi con riso che ricordavano i giorni mesti in cui si e ammalati sotto le coperte, mele e pere spezzettate, servite nelle bacinelle di plastica azzurra che le nonne usavano per i panni. I menu sono quasi tutti identici: minestra di verdure, lonza impanata al forno, minestra di riso in brodo vegetale, passato con crostini, fagiolini, verdura cruda, carote al prezzemolo. Ogni volta divento un annotatore di lamentele dei bambini: “I grandi pranzano con quello che vogliono, noi no. Mia mamma fa l’infermiera, – mi spiega Giulia, di dieci anni, arrabbiata perché non c’è nulla che le piace, – e nella sua mensa sceglie se mangiare la pasta al ragù o ai quattro formaggi. Noi non possiamo. Mi spieghi il perché?”.

Di là delle impressioni di un maestro, proviamo a guardare qualche dato che ci arriva dal recente rapporto di “Cittadinanzattiva che dedica alle mense un focus: il 36% dei bambini non ama magiare in mensa. Di questi il 77% spiega che non gli piace perché il modo di cucinare è monotono; il 57% perché c’è sempre lo stesso cibo; il 48% perché le porzioni sono scarse e il 37% perché l’ambiente è triste. Solo il 21% dei bambini mangia volentieri sia a casa che a scuola.

Diamo un altro dato. Quello dei Carabinieri che nei mesi scorsi hanno presentato i risultati delle indagini condotte dai Nas su 2.678 mense scolastiche. Gli Uomini dell’Arma hanno comminato 164 sanzioni penali e 764 amministrative. In particolare: 58 per frode in pubbliche forniture; 23 per commercio di alimenti nocivi; 10 per alimenti in cattivo stato di conservazione e ben 695 per carenze igienico strutturali. Sono stati sequestrati 6.624 chilogrammi di alimenti alterati, senza etichettatura o tracciabilità.

Infine la mensa costa. E tanto. Per una fascia Isee con 19.900,00 euro si passa dai 2,48 euro a pasto dell’Abruzzo ai 3,50 euro della Campania, ai 3,77 euro del Friuli (3,70 anche in Toscana), ai 4 euro della Sardegna, ai 5 euro della Sicilia fino ai 5,66 della Basilicata.

Non resta che rivedere l’intero sistema di ristorazione scolastica. E’ chiaro che oggi non funziona. Manca il controllo, non è considerato un tempo “scuola”, è gestito male, è costoso e soprattutto non permette al bambino di mangiare bene e in una situazione di benessere.

Finché non cambierà la situazione: W la schiscetta!

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