Con la discussione sulla legge di bilancio si torna a parlare di finanziamenti alla sanità. Al di là della retorica di governo e regioni, prima di parlare di fabbisogno, si dovrebbe chiarire quale sistema sanitario si vuole per il futuro. Nuovi Lea: l’accentramento non risolve i divari territoriali.

di Gilberto Turati (Fonte: lavoce.info)

Quando i numeri sono un’opinione

Ci risiamo. In attesa dell’approvazione definitiva della legge di bilancio per il 2017, ci toccherà subire la solita ridda di anticipazioni in merito ai denari per il Servizio sanitario nazionale, col governo ad argomentare che i fondi sono aumentati e le regioni a dire che sono meno di quelli promessi. Saranno davvero 113 miliardi di euro? Se fossero di meno sarebbe un vero taglio?

Se i numeri non fossero un’opinione, si dovrebbe riconoscere che il finanziamento del Ssn era già fissato a 115 miliardi per il 2016 nella versione originaria del Patto per la salute 2014-2016, poi sono scesi fino a 111 miliardi dopo un paio di modifiche da parte del governo.

Rispetto a questi numeri, con un finanziamento di 113 miliardi per l’anno a venire non sembrerebbe azzardato parlare di tagli, almeno alle promesse iniziali. Certo, rispetto ai 106 miliardi dell’ultima versione delle slides del governo sono soldi in più. Eravamo però a 106 miliardi nel 2011, quando Matteo Renzi pensava ancora a fare il sindaco a Firenze. Ma una discussione del genere è semplicemente sterile, se non si chiarisce una volta per tutte l’equivoco di fondo su che cosa realmente rappresentino le risorse destinate alla sanità.

La retorica del governo vorrebbe che fossero i soldi per garantire, da Nord a Sud, i “livelli essenziali di assistenza”. Anche perché c’è scritto nella Costituzione che il diritto alla salute va garantito a tutti i cittadini. La retorica si scontra però con la realtà dei fatti: nel Patto per la salute 2014-2016, l’ultimo che è stato firmato, si diceva che le risorse sono date “salvo eventuali modifiche che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro macroeconomico”. Ma una frase del genere vuol dire che i soldi per i Lea non sono tanti o pochi: sono solo quelli che possiamo permetterci, o decidiamo di poterci permettere, dati i vincoli normativi al disavanzo di bilancio. E negli ultimi anni sappiamo come è andata.

Disegnare il sistema sanitario del futuro

Quanti soldi dare alla sanità è una scelta politica e fa parte della strategia del governo, che deve avere una qualche idea in merito al sistema sanitario nazionale del futuro. In termini di risorse, finora si è traccheggiato, con soluzioni discutibili – come il pay-back (che possono servire a mettere una pezza nel breve, sempre che la magistratura le lasci passare); o da sostenere, come la riduzione delle inappropriatezze e la lotta agli sprechi, ma che certo non potranno essere utilizzate per rispondere alle pressioni sulla spesa che deriveranno nel medio-lungo periodo dall’impiego, per esempio, dei nuovi farmaci innovativi.

Per avere contezza della scala del problema basti pensare che, già nei primi sei mesi di questo anno, la sola farmaceutica ospedaliera ha sfondato le previsioni di quasi 1 miliardo, circa il 50 per cento in più di quanto programmatoPer coprire il fabbisogno ci sono solo due vie: o si mettono soldi pubblici in più (che presuppongono tasse in più oppure una riduzione di qualche altra categoria di spesa, se si ragiona almeno a saldo invariato); oppure si ricorre – senza aver paura di dirlo – a un secondo pilastro, come per la previdenza.

In termini di cose che il Ssn dovrebbe fare, invece, il governo ha definito i nuovi livelli essenziali di assistenza, fermi al 2001. Anche in questo caso la retorica è quella della creazione di un sistema sanitario al passo con l’innovazione tecnologica. In realtà, per alcune prestazioni, si è semplicemente riconosciuto a livello centrale ciò che alcune regioni già offrivano ai propri cittadini (per esempio, l’anestesia epidurale).

Le differenze sui vecchi e sui nuovi Lea tra regioni sono ovviamente marcate: smussarle è l’altro grande problema da affrontare per disegnare la sanità pubblica del futuro. Difendere il decentramento fiscale come soluzione organizzativa per rendere le regioni più responsabili appare ormai come una battaglia di retroguardia. Certo, oggi sappiamo che il federalismo può funzionare solo nei contesti dove i governi locali possono metterci una quota rilevante di risorse proprie; pensare quindi di risolvere i problemi della sanità del Sud col federalismo non può funzionare. Ma pensare, come sembra fare il governo, che l’accentramento possa di per sé ridurre le differenze è altrettanto sbagliato: lo testimoniano i risultati sul versante dell’istruzione, che pure rimane una politica saldamente nelle mani del governo centrale, ma nonostante ciò mostra differenze marcate tra Nord e Sud. Nel Patto per la salute 2017-2019, che ancora non c’è, ci si aspetta di leggere qualche chiarimento sostanziale su questi due punti da parte del governo.

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