Quest’estate, un’illuminazione: sono io stessa a creare il disagio che provo di fronte a modi aggressivi: o perlomeno è la mia mente. La frase “it is your mind that creates this world” è appesa da anni in camera mia, una cartolina con una citazione di Buddha. Si riferisce alla nostra umana autoreferenzialità: la stragrande maggioranza dei neuroni del nostro cervello pare si occupi di input del cervello stesso. Riflettiamo, fantastichiamo, immaginiamo molto più di quanto non elaboriamo gli input dal mondo esterno, con la pura percezione. Negli animali pare sia il contrario.

E’ dunque la mia mente a creare disagio. Eppure non ho alcuna intenzione di soffrire. Per cui, se l’altra persona si comporta in un certo modo x (ad esempio parlando in modo duro, giudicante, accusante) che non corrisponde al mio ideale di, ad esempio, gentilezza, equanimità – sento il bisogno di difendermi: sono pavida, temo la sofferenza, temo questi modi.
Temendoli, la mia attenzione si fissa su di loro – invece di vederli transitare come fenomeni qualsiasi davanti alla mia percezione: sì, gli esseri umani sono a volte anche così, chissà, probabilmente per difendersi a loro volta dal rischio della sofferenza – li confronto con il mio film mentale di preferenze: e come mi piacerebbe l’armonia, l’accordo, la pace!

E solo grazie a questa mia partitica mossa creo il fenomeno che temo: “l’amica aggressiva”, la persona “giudicante” non sono che (mie) attribuzioni. L’aggressività non esiste di per sé, come una sostanza chimica, senza qualcuno che dia questa attribuzione, sulla base del confronto col proprio film di aspettative. Esiste quindi solo nel sistema di umani coinvolto.
Rifiutando dolore, contribuisco a produrne, col rifiuto stesso: in me, nel sentire in prima persona la tensione del rifiuto, il mio giudicare, ad esempio, “aggressivo” l’altro, e nell’altra persona, che si sente rifiutata.

Esseri umani: tanti nodi di una rete (comunicativa?) che inventa, pensa, immagina, sogna, trasmette significati e attribuzioni; ognuno fa la sua parte come può, dice la sua nel calderone cosmico della grande negoziazione globale – come si inspira e si espira, ci si scambia attenzione, o meno; ci si conferma a vicenda del proprio valore o no. Ogni nodo dà il suo contributo, semplicemente nell’esserci, così come è.

La vita è quindi “semplice”, se e quando vogliamo aggiungerle questo significato. Potrebbe esserlo e lo è, se la vediamo così. La vediamo così se non abbiamo nulla in contrario, se ci rilassiamo e l’accettiamo come arriva. Le permettiamo di essere come è, rinunciamo almeno per un momento a difenderci, a volerla adeguare ai nostri desideri, aspettative e progetti.

Ci pare che gli animali siano “meglio delle persone” perché non ci aspettiamo da loro che correggano il loro comportamento – è la loro natura, l’istinto, diciamo – immaginiamo che reagiscano all’input della vita senza interpretazione intermedia, senza scelta, e lo accettiamo. Siamo quindi liberi da attribuzioni nei loro confronti: li vediamo “funzionare” proprio come ci aspettiamo che faccia un cane, un gatto, un canarino. Ed è questa nostra accettazione di fondo che ci fa star bene con loro.

Se la sentissi per ogni sassolino sul mio cammino, starei così bene anche con lui. Lo toglierei dalla mia scarpa, certo, ringraziandolo e dicendogli “grazie di fare la tua parte di sassolino, mio caro: mi hai fatto sentire quanto sensibili siano i miei piedi! Grazie e ciao!”

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