Arti di zebre amputati col machete; uccisioni di bufali e gnu con tanto di dettaglio sull’ultima bolla d’aria che esce dal loro petto prima che muoiano; abbattimento, svisceramento e macellazione di una giraffa femmina dopo aver seguito la sua agonia, il collo che si rialza e riappassisce, l’occhio che si spegne. Il documentario Safari del regista austriaco Ulrich Seidl, Fuori Concorso a Venezia 73, è quello che ci potevamo aspettare da una sorta di Gualtiero Jacopetti dei giorni nostri, intento a filmare un’intera famiglia di bracconieri austriaci, marito, moglie, figlio e figlia, che esercitano la loro aberrante “professione” di cacciatori in Namibia. Uno stile jacopettiano, quello di Seidl, più visivamente truce ed eticamente ambiguo, se possibile. La certificazione provata che l’abiezione morale e i confini dello sguardo possono ancora essere stressati e valicati dal cinema.

La storia è tutta qui, non c’è molto da aggiungere. Piani fissi su alcuni turisti a figura intera, fronte macchina e spesso immobili (marchio di fabbrica seidliano) mentre soggiornano nei bungalow dei resort africani, prendono il sole, si spalmano la crema ed enumerano il prezzario di impala e zebre. Poi le battute di caccia con macchina da presa in movimento sempre dietro ai protagonisti (cacciatori, guida bianca e accompagnatore ‘nero’ della zona) e le foto dei “trofei” en plein air; e ancora di nuovo piani fissi in cui i cacciatori elencano le loro emozioni quotidiane mentre mirano “alle zone vitali” di un elefante, parlano di mirini, calibri e di quanto sia adrenalinico massacrare una giraffa. E c’è pure una postilla sulla superiorità della razza bianca, gli austriaci of course, che ricorda il compatriota del Mein Kampf. Poi certo Seidl osserva. Lui osserva sempre. Mai un’emozione, mai un singulto, mai una titubanza. Un’enorme giraffa assieme al compagno maschio, che si fanno avvicinare curiosi fino a nemmeno 200 metri, con i loro lunghi colli a scrutare quegli uomini che si dannano in silenzio per puntarli e ucciderli, vengono seguiti senza indugi dall’occhio della macchina da presa una volta uccisi. Spesso l’impatto del proiettile è solo elemento sonoro e non viene montato il dettaglio dell’animale che si accascia (questo sì era più una scelta narrativa da documentario finto etnografico, appunto, alla Jacopetti), Seidl però non risparmia il resto. Il suo sguardo è subito sopra i cadaveri degli animali, si sovrappone a quello dei cacciatori. Un festival del macabro, la cancellazione della bellezza del creato.

E Seidl non si perde un colpo, è lì in prima fila, a riprendere questo perverso impulso di autocelebrazione della superiorità degli umani tra di loro – bianchi padroni e neri servi rappresentati in silenzio mentre scuoiano le bestie morte e sbranano pezzi di carcasse (qui Jacopetti caro Ulrich, docet non è vero?) – come la nuova linea drammaturgica seidliana di dominazione crudele e barbara della caccia tra uomo e animale. “Non era mio compito andare lì e bloccare, che so, l’uccisione della giraffa”, spiega il regista in conferenza stampa. “Ho voluto solo raccontare la realtà e quindi ho cercato di mostrare cosa significa cacciare, come funziona l’atto della caccia, capire le emozioni dei cacciatori e che cosa sentono. La caccia è un fenomeno europeo e mondiale. Si va a caccia in Africa, ma anche in Austria e in Italia. Non c’è nulla di strano”. “In generale la caccia viene percepita in modo negativo, ma fin dai tempi dei nostri avi veniva praticata”, spiega herr Muller, una delle guide austriache in Namibia presente nel film, che Seidl ha la cortesia di portarci al Lido. “Oggi dovremo portare avanti un’idea di caccia etica perché abbiamo bisogno di selezionare gli animali. So che per qualcuno non è bello quello che facciamo, ma abbiamo una nostra etica professionale. I turisti bracconieri inoltre non vanno in Africa a fare safari solo per uccidere. Molti di loro l’animale lo rispettano (la guida si riferisce al momento in cui una volta uccisi gnu e giraffa i bracconieri toccano gli animali, dicono “che belli”, e gli fanno pat pat sulla schena ndr). La questione di fondo rimane però aperta. Quale etica viene rispettata nella ripresa cinematografica del dettaglio di un animale ucciso solo per il gusto di farlo? Finchè si tratta di essere umani, maggiorenni e consenzienti che mostrano le loro perversioni e/o eccessi sessuali (In The Basement, 2014, sempre Fuori Concorso a Venezi 73) d’accordo, ma di fronte all’animale nella savana, ignaro, inconsapevole, incapace di intendere il volere del cacciatore, il discorso concettuale comincia a zoppicare e si aprono le porte del sensazionalismo gratuito, senza rispetto per la vita altrui modello snuff movie.

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