Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana che si chiamava cinema, Wim Wenders e Peter Handke scrivevano insieme, poi il primo girava, La paura del portiere prima del calcio di rigore. Quarantaquattro anni fa. Ecco, oggi, il diabolico duo, autore sì anche de Il cielo sopra Berlino (1987) ci riprovano con il più pretenzioso e imbarazzante film visto nel Concorso di Venezia 73. Un passo indietro: da quand’è che Wenders non fa un film? Sì, fa, voce del verbo fare. Cioè si mette d’impegno e crea. Si sbatte. Si dà da fare, insomma. Ecco, saranno appunto 30 anni. Wenders poi ha inserito il pilota automatico del manierismo e via così finché ai festival c’è un posto a tavola tra i “grandi”. Poi c’è questa roba qui, dei ‘Bei giorni d’Aranjeux”, girata in un giardinetto dell’Ile de France, perfino in 3D, con la pretesa di saperla lunga sull’uso di un dispositivo tecnico/espressivo che ha già rotto le scatole persino a James Cameron, che è probabilmente il punto più basso di una carriera giunta oltre il tempo massimo della storia e della sopportazione.

Nella stanza di un casale c’è un tormentato scrittore, ‘tormentato’ si fa per dire, descriviamo l’apparenza non la sostanza, che davanti ad una vecchia macchina da scrivere si mette all’opera e mette in bocca parole e situazioni ai due attori seduti apparentemente nel giardinetto fuori dalla finestra del casale. Ecco, Sophie Semin e Reda Kateb (quest’ultimo davvero un gran fenomeno performativo, ma non in questo film) stanno lì, seduti e aggrovigliati sulle seggioline di paglia, con il piedino dondolante lui, con la sciarpina attorno al collo che cade e si riavvolge lei. Qualche inquadratura di rami e foglie scosse dal vento, e si riparte con la stessa solfa tra i due, ma con un nuovo (si fa per dire) punto macchina sui due che dialogano. Il film va avanti così, loop moscio e inesausto, ripetuto e devastante, con tutti i clichè in bella mostra degli intimamente inquieti personaggi e la totale assenza di una variazione reale drammaturgica, o di un anelito di urgenza, impellenza, nel raccontare un qualcosa al mondo che possieda un senso compiuto. Se superate le banalità del discorso amoroso esposto da lei sollecitato da lui, e riuscite a valicare il momento della battuta fatta dalla Semin – “Perché non fai più domande? Senza sono muta, cieca e non riesco ad andare avanti” – dal juke box del casale dove all’inizio si ascolta Lou Reed sbuca perfino Nick Cave in persona. Lasciamo per ultime le otto ridicole inquadrature da asilo nido in apertura di film: campi lunghi fissi in 3D su Parigi deserta e di giorno (bah?), la Tour Eiffel, l’arco di Trionfo, un bateau-mouche. Sprofondo Wenders. Da denuncia. Voto: 0 (ed è fin troppo).

Se dall’Ente nazionale croato del Turismo vedessero il film Quit staring at my plate (Giornate degli Autori- Venice Days, 2016) avrebbero di che preoccuparsi per il futuro vacanziero della costa dalmata. Ambientato in una suburra baraccata e bollente della cittadina di Sibenik, là in mezzo alle tanto amate isolette dove svernano gli occidentali d’estate, la tragica storia della 24enne Marjana cancella il tradizionale quadretto della cartolina pittoresca mare/sole/cibo a buon mercato. La sua casupola da condividere con la madre sciatta e perfida, il padre obeso, il fratello altrettanto grasso e in più ritardato, è una prigione fisica alla Brutti Sporchi e Cattivi, e una costrizione mentale da Non aprite quella porta. In più i dialoghi soprattutto quelli dei vicini di casa e delle colleghe di lavoro della ragazza sono intrisi di un sentimento, questo sì che da oggi farà allontanare i turisti dalle coste croate, dove si gioisce per le disgrazie altrui. Esempio: la vecchietta che vede Marjana libera e tranquilla mangiare un panino le dice “spero ti vada per traverso”. Piccinerie, allusioni, deliberate offese, squallide affermazione anaffettive materne (“guarda che schifo, come sei magra”), la presenza/assenza dei “turisti americani che vengono a svernare” e a cui si va a pulire la casa per poche kune, rendono la cappa asfissiante costruita drammaturgicamente attorno a Marjana qualcosa di letteralmente invalicabile. E per capire quanto spesso ci sfugga di culturalmente altro al cinema, nella letteratura, nella poetica in genere, la regista Hana Jusic definisce il linguaggio del suo film “humor croato”, qualcosa “tra il grottesco rabelesiano e il realismo psicologico”. Insomma, come spesso capita, non abbiamo colto il giusto senso del discorso, e ce ne scusiamo. Comunque il film si fa guardare e ha notevole valore espressivo. Solo che d’ora in avanti staremo più attenti alle affermazioni che ci parevano sinistramente umoristiche dei nostri amici croati mentre prendiamo il sole sulle coste della Dalmazia. Voto 6+ (per paura di ritorsioni delle vecchiette che affittano appartamenti in Croazia)

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