“Possiamo proclamare la fine del conflitto armato e l’inizio del dibattito delle idee”, è questo il prologo del comunicato lanciato alla stampa internazionale dalle Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) lo scorso 24 agosto, storica giornata che ha segnato la chiusura de Los Dialogos de paz. Una trattativa lunga quattro anni tra l’antica formazione rivoluzionaria e il governo di Bogotà del premier Juán Manuel Santos che ha avuto come scenario la capitale cubana de L’Avana, con un ruolo chiave nell’estenuante mediazione tenuto dal governo di Raúl Castro e dal governo del Regno di Norvegia, i cui delegati hanno sottoscritto le 297 pagine dell’Accordo di pace.

Il 24 agosto potrebbe essere ricordato come l’ultimo giorno di guerra di un “conflitto asimmetrico” che, nel corso di oltre quarant’anni, ha lasciato sul campo, tra montagne ammantate di selva fittissima, oltre 200 mila morti. Guerriglieri contrapposti a forze regolari dell’esercito e a gruppi paramilitari di estrema destra, con i narcotrafficanti a fare spesso sentire il loro fiato nocivo sul collo degli attori del conflitto, talvolta al fianco delle Farc, altre pronti a finanziare sanguinari progetti contrainsurgentes sostenuti da paramilitari, con la complicità di pezzi dell’esercito e di latifondisti delle zone toccate dalla guerra.

Dai campi della guerriglia al tavolo cubano dove intessere districate trattative che hanno seguito i primi negoziati avviati nel lontano 1983, tentativi conclusi nel vuoto, finiti in un nulla di fatto. Non erano maturi quei tempi, tuttavia, in quell’epoca – secondo Luis Fernando Medina Sierra, saggista e professore di Scienze politiche all’Università di Chicago, intervenuto sulla rivista digitale spagnola Contexto – si piantarono i semi che hanno dato i frutti di questi giorni. Semi che hanno potuto germinare dopo quasi trent’anni, un lungo periodo che, poco a poco, ha portato i rivoluzionari ad avvicinarsi alle istituzioni, a prendere coscienza della Carta fondamentale colombiana, ad accettare il ruolo della Corte costituzionale, organo al quale le parti ora demandano la definizione di alcune questioni rimaste irrisolte.

Sono cinque i pilastri su cui poggia l’accordo: la riforma rurale che dovrebbe garantire una più equa ripartizione degli appezzamenti agrari, una più ampia partecipazione politica, il patto sulle droghe illecite, con politiche di prevenzione per ridurre la produzione e il consumo e nuova campagna contro il riciclaggio dei proventi, un accordo sulle vittime della guerra teso alla ricerca della verità e della giustizia, con restituzione delle terre confiscate e nuovi mezzi per la ricerca delle persone considerate desaparecidas. Infine l’accordo sul “fine guerra”, ossia, la definitiva cessazione dell’uso della violenza, la consegna delle armi, il monitoraggio del rispetto delle condizioni pattuite devoluto alle Nazioni Unite e a osservatori dei paesi della Celac (Comunità dei paesi latino-americani e dei Caraibi), lo smantellamento delle strutture paramilitari.

In attesa del referendum popolare che tra poco più di un mese dovrà ratificare i punti dell’Accordo di pace, sulle reti sociali i colombiani, stanchi di essere segnalati come violenti o come fiancheggiatori del narcotraffico ogni volta che mostrano il passaporto negli aeroporti internazionali, sembrano già celebrare il 24 agosto. E’ il primo giorno di pace!

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