di Antonio Simonetti*

Tempi non serenissimi per al-Sisi, almeno stando a quanto scritto sulle colonne del quotidiano libanese al-Akhbar secondo cui la narrativa politica dell’attuale presidente egiziano inizia a mostrare (adesso anche agli occhi degli osservatori meno attenti) le prime incongruenze.

Secondo il professore egiziano Rabab al-Mehdi, citato sempre nello stesso articolo, l’irrisolta crisi economica sta contribuendo in maniera decisiva ad esacerbare gli animi degli egiziani sinora frenati solo dal “bastone” utilizzato per reprimere il dissenso interno e che ha ripristinato e rafforzato un clima di paura e tensione di vecchia memoria. Questo peraltro, prosegue l’accademico, senza che al-Sisi, dopo aver dichiarato fuori legge i Fratelli Musulmani, abbia chiarito quali siano le “costanti minacce” che gravano sul paese o abbia mai chiarito sino in fondo da quali nemici ci si debba effettivamente difendere.

Secondo, invece, il professore Hassan Nafea dell’Università del Cairo, i poteri legislativi e giudiziari non giocano un ruolo imparziale così come i giudici non svolgono in piena coscienza il proprio dovere. Questo senza contare, continua il docente, del ruolo decisamente poco indipendente giocato dai media e dalle unioni sindacali.

I dati relativi alla repressione nel paese sono ormai di dominio pubblico nei media occidentali e per il mondo delle Organizzazioni non governative internazionali. Basta dare uno sguardo agli articoli di Human rights watch, alle pagine locali dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, alle news dell’Egyptian Coordination for rights and freedoms, agli appelli del No Military Trials for Civilians, alla cronaca di uno dei pochi siti di informazione liberi: Mada Masr.

Il Paese è rattrappito su se stesso, thawra (rivoluzione) è una parola alla quale pochi adesso credono e che sembra fare riferimento ad un’epoca lontana decenni. Il 25 gennaio 2011 non è mai sembrato più lontano.

Un senso di lontananza che viene persino acuito dalle dichiarazioni del 25 agosto 2016 da parte dell’attuale presidente al-Sisi che ha in pratica annunciato di volersi candidare nuovamente alla guida del Paese “se questa sarà la volontà degli egiziani”. Pura retorica. Le prossime elezioni, salvo rinvii, sono previste per il 2018 ed allo stato attuale si preannunciano senza alcuna reale battaglia elettorale. Durante le elezioni del maggio 2014, al-Sisi si affermò con una percentuale degna del miglior Mubarak: 96.1%. Anche nel 2018 il panorama politico egiziano non sembra poter partorire un reale candidato alternativo. Questo sia in ragione di una repressione, durissima, testimoniata dai dati di moltissime ong indipendenti sia in ragione della mancanza reale di un progetto politico alternativo che fatica a trovare un percorso indipendente. In una intervista rilasciata il 17 maggio scorso ad al-Monitor, uno dei più influenti politici egiziani, Hamdeen Sabbahi, riconosceva come l’influenza del suo stesso partito politico (Egyptian Popular Current) fosse diminuita dopo la presa di potere di al-Sisi e di come anche le altre forze politiche avessero sempre meno spazio di espressione. Peraltro, proprio con riferimento alle elezioni del 2018, Sabbahi affermava che non avrebbe partecipato.

Il confronto fra la piazza e l’attuale presidente sembra dunque rimandato al 2018, anche se il crescente malcontento del Paese (che ha già trovato sfogo nelle manifestazioni per le/delle isole Tiran e Sanafir) sembra non poter attendere inerte altri due anni.

La stagione degli scioperi del resto non si è mai definitivamente interrotta. Secondo i dati ripresi dal Daily News Egypt, dal gennaio 2016 all’aprile dello stesso anno si sono avute 493 proteste per chiedere maggiori diritti sindacali e migliori salari. Si tratta di proteste che coinvolgono al massimo qualche centinaio di persone e che portano con sé richieste di natura economica senza alcun riferimento alla rimozione del regime in carica. Eppure il limite sembra essere lo stesso del 2011. Le pur presenti rivendicazioni sociali non sembrano poter portare ad una rivoluzione concreta, poiché la mancanza di un attore politico di livello che sappia interpretare e tradurre quelle rivendicazioni è un limite ancora invalicabile.

Alcuni analisti hanno considerato le proteste del 2006 nel distretto tessile di Mahalla come la prima fonte di ispirazione della rivolta di piazza Tahrir del gennaio 2011. Il parallelismo con quelle odierne è azzardato, eppure gli scioperi degli operai e dei lavoratori sono comunque il segnale di una insofferenza insopprimibile nonostante gli sforzi del regime. Se è vero che il 25 gennaio 2011 sembra solo un ricordo lontano e sbiadito forse i primi segni di debolezza di un regime apparentemente irremovibile iniziano a manifestarsi.

* giornalista freelance con base a Beirut

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