Arriva finalmente nelle sale italiane Il clan, ottimo film argentino di Pablo Trapero, vincitore del Leone d’Argento alla scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia, nel 2015. Ed è un bel modo per far ripartire la stagione, giacché il film è straordinariamente fresco, intrigante, ben scritto e ben diretto.

Prendendo spunto da una storia vera, Il clan racconta la storia di una famiglia, quella dei Puccio, che vive tranquillamente nell’Argentina dei generali di inizio anni Ottanta grazie a una serie di rapimenti fatti a scapito di rampolli della società bene dell’epoca. Le vittime di volta in volta individuate sono amici di Alejandro, uno dei figli di Arquimedes, l’impassibile e spietato capofamiglia che ordisce tutti i delitti. Il ragazzo, oltre ad essere complice del padre e della sua banda, è anche una giovane stella nazionale del rugby, condizione che vive in apparenza senza traumi, nonostante la scomparsa di un suo compagno di squadra ad opera dei rapitori. E anche la famiglia conduce una vita irreprensibile, con la moglie di Arquimedes che si occupa amorevolmente dei molti figli, oltre che del suo lavoro di insegnante, e tutti che si ritrovano composti al rito della cena serale, qualche volta perfino pregando prima di cominciare a mangiare. C’è però qualche eccezione in questo quadretto familiare: da una parte un figlio, Maguila, che è partito all’estero, ma che tornerà per dar manforte alla famiglia, dall’altra un altro figlio, Guillermo, il più piccolo ma il più attento di tutti, che a un certo momento parte per ritrovare, nella lontana Svezia, le radici di quella famiglia che, per come è diventata, ormai non sente più sua. Nonostante questo, la vita dei Puccio scorre tranquilla, attorno a un negozio di famiglia che serve più da copertura che da fonte d’affari. Ma le cose cambieranno quando il regime dei generali verrà rovesciato e le protezioni del potere verranno meno.

Svolgendosi come thriller anomalo, il film vive in una sorta di contrappunto perenne, diviso com’è tra la quotidianità “normale” e la ferocia dei rapimenti, che sempre si concludono drammaticamente. Del resto un contrappunto è anche all’interno stesso della famiglia, dove all’acquiescenza di chi si volta dall’altra parte pur di “non sapere” si oppone la decisione di chi non accetta quella doppia condizione. Il male è tra di noi, sembra dire Trapero: qualcuno ne è direttamente responsabile, qualcun altro, pur fingendo una vita rispettabile, è altrettanto colpevole perché non ne prende le distanze. E il discorso non vale solo per la famiglia Puccio, ma anche per l’Argentina dei generali, dove la vita quotidiana sembrava scorrere grazie anche a chi fingeva di non vedere. Ma il contrappunto non sta solo nelle pieghe della storia e nei suoi continui rovesciamenti anche di genere (dal film di ambientazione sociale al thriller fino al mélo): anche il montaggio, con i frequenti flashforward, e soprattutto l’avvincente colonna sonora, che inserisce motivi rétro nei momenti culminanti (straordinario è il commento dell’ennesimo rapimento con le note di Just a Gigolò), danno all’intera vicenda un tono vagamente surreale, al quale non è forse estranea la mano dei fratelli Almódovar, coproduttori del film. Un film teso e acuminato come una lama, che trae dalla schizofrenia dei personaggi e della storia un aroma intenso. Un pezzo di vero cinema, di quelli che si vorrebbero vedere più spesso.

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