Esistono verità che, apparentemente, appaiono inconfessabili. Difficile trovare chi, giornalista, intellettuale o semplice cittadino, desideri squarciare il velo di ipocrisia che accompagna moltissimi settori della nostra esistenza. Abituati a rapportarci solo di fronte al bene o al male, in una dicotomia che focalizza l’attenzione esclusivamente sui tratti dominanti e abbandona all’indefinito i tratti più marginali, abbiamo perso il gusto della ricerca di senso e di significato in una buona parte delle nostre azioni.

Quando poi il bene o il male sono etichettati come antimafia e mafia, come azioni virtuose che si oppongono alle azioni mostruose, il corto circuito è assicurato. La rendita del bene, in termini di immagine, si consolida fino a diventare un monolite che nessuno ha più il coraggio di discutere. Parlare oggi di Di Matteo o di Libera in termini dubitativi in merito alla reale efficacia delle loro azioni di contrasto alla mafia – pur reiterando la stima alle singole persone – equivale ad un vero delitto di lesa maestà che ti identifica, seduta stante, in un connivente se non correo del male che loro combattono.

Accade, però, che qualcuno si sottragga a questo gioco e mantenga sempre accesa la luce della critica, della riflessione, della domanda. Lo ha fatto per i tipi del Saggiatore, il giornalista Giacomo di Girolamo con il libro “Contro l’antimafia”. E lo ha fatto possedendo titoli e biografia di giornalista che la mafia la combatte, la conosce, la studia, la detesta. L’ossatura del libro si avvale di un antico escamotage letterario: quello della lettera indirizzata al mafioso per eccellenza che oggi, come ieri, è ancora Matteo Messina Danaro. In questa lunga lettera, amara ma non di resa, l’autore passa in rassegna, con ricchezza di esempi e pregnanza di cittadino attivo, il lungo percorso di una antimafia che ha smarrito, per strada, i segni qualificanti della prima ora, per farsi pomposa riedizione di un potere più attento ai tatticismi mediatici e di convenienza che all’efficacia del proprio agire.

Una antimafia macchiettistica, con ruoli ben definiti, canovacci imparati a memoria, liturgie da cerimoniale frusto, accompagnano l’intensa e redditizia attività fatta di campi di lavoro, lezioni di legalità, commemorazioni, costituzioni di parte civile, fino ad arrivare al “ sacro graal” rappresentato dalla gestione dei beni sottratti alle mafie. In questo enorme palcoscenico ognuno recita a soggetto in una presunzione di essere unico e irripetibile e sopratutto” unto “ di verità e investito, direttamente, da Falcone e Borsellino.

C’è il giornalista più antimafia di altri alla pari del magistrato più antimafia di altri o del collaboratore più antimafia di altri. Ma non manca l’associazione più antimafia di altri, il politico più antimafia di altri o l’imprenditore più antimafia di altri. Perfino alcuni parenti di vittime uccise dalle mafie si sentono più anti mafiosi di altri. Questo sistema apparentemente virtuoso non viene scalfito, in questa costruzione autoreferenziale , dalla perdita di credibilità di magistrati, giornalisti, imprenditori, organizzazioni e collaboratori di giustizia che, ironia della sorte, possiamo ben definire…in odor di antimafia.

Le somme in gioco, in termini di valore dei beni e di contributi ottenuti, non sono noccioline: l’efficacia di tutto questo bel movimentare, al contrario, rappresenta un macigno su cui interrogarsi. Migliaia di immobili in decadenza insieme a migliaia di aziende che, in mano allo stato, portano i libri in tribunale. Sovrano, in questa antimafia di maniera, il tema della “Trattativa” che si disvela in qualsiasi contesto od occasione con il corollario di certezze extragiudiziarie che hanno già condannato, nell’immaginario collettivo di ampi strati dell’antimafia, pezzi di classe politica in palese spregio di quel principio di legalità che gli stessi vorrebbero insegnare a scuola.

Un libro tutto da leggere se si vuole andare oltre le agiografie di molti personaggi, star dell’anti mafia e approfondire storture e meccanismi di una legge sui sequestri e sulle confische che andrebbe ampiamente rivista. Un libro coraggioso di un giornalista coraggioso che dopo avere criticato il potere del male osa criticare il potere del bene. Cosa, in italia, impensabile. Una lettera che trasuda la speranza che l’antimafia ritrovi quelle origini che hanno fatto sperare.

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