Si parla molto della questione legata alla privacy, al diritto all’immagine, alla tutela della riservatezza che – vuoi per rispettare alcune leggi, vuoi per motivi “etici e deontologici” – il fotografo sarebbe tenuto a rispettare nei confronti dei soggetti fotografati (pur con molte eccezioni e tutte le interpretazioni connesse). Ne ho già parlato in un post precedente (Adieu liberté, quando la privacy uccide la fotografia di strada) e non torno sulla complessa, discussa e discutibile faccenda.

Questo è solo lo spunto iniziale, direi la “provocazione”, per buttar lì un mio tarlo che ancora di riservatezza e fotografia tratta, ma vista dall’altra parte, la riservatezza dell’autore.
Da fotografo sono coinvolto in prima persona e dunque non faccio la morale a nessuno (non posso certo io scagliare la prima pietra) ma pongo – mi pongo – questa domanda: che fine ha fatto la riservatezza del fotografo?
Se da una parte siamo costretti ad accettare la “rarefazione” dei soggetti umani per questioni di privacy, dall’altra rafforziamo quasi disperatamente la presenza nostra come oggetto d’interesse diventando “soggetti di noi stessi”.  Ma non in chiave fotografica come sarebbe lecito per chi, ad esempio, fa ricerca di senso del sé tramite l’autoritratto.

No – ahinoi – sto parlando del fotografo “social”, del fotografo protagonista, del narcisismo mediatico che ci fa apparire, affermare, disquisire (e qui, e ora, anch’io lo sto facendo…).

Henri Cartier-Bresson, si racconta tra verità e leggenda, dipinse di nero le parti cromate della sua Leica per evitare che un riflesso del sole potesse svelarne la presenza attirando attenzione.
Lui stesso, una volta divenuto famoso, rifiutava di essere fotografato per non essere riconosciuto: un fotografo al centro dell’attenzione è un ossimoro, tutto viceversa deve essere al centro dell’attenzione del fotografo.
Ma poi, un giorno, arrivò la rete e tutti c’impigliammo…

Prima il sito, poi i profili social, i blog, e tutti (chi più, chi meno, forse qualcuno per nulla) iniziammo a toccare troppo quei tasti che di fotocamera non erano.
Tempo investito per “esistere” ma sottratto alla fotografia “fotografata”, altro paradosso: io, fotografo, è grazie a questa che vorrei e dovrei esistere.
E così, sembra ormai, siamo più fotografi se parliamo di fotografia che se la pratichiamo. Pericolosa questa china, per me, per noi, per la fotografia.

Tutto questo non venga letto come la solita demonizzazione di Internet, che invece considero un mondo di opportunità e di informazioni senza pari nella storia umana. E nemmeno candidamente ci si stupisce che un fotografo promuova la sua attività utilizzando i mezzi  del suo tempo. Ci si chiede però quale posizione in quel mondo senza polvere né odore tende a occupare oggi un fotografo rispetto al suo essere primariamente e totalmente calato nella vita reale.

Qualcuno dirà – a ragione – che “fotografi divi” ce ne sono sempre stati (mi viene in mente David Bailey protagonista della “Swinging London” negli anni ‘60 o, per certi aspetti, lo stesso Bob Capa amato dall’ambiente del cinema hollywoodiano, ma l’elenco sarebbe lungo…). Sta di fatto, però, che allora il protagonismo di questi fotografi era comunque preceduto dalle loro fotografie, mentre ora, quando va bene, ne viene solo seguito. Qualcun altro, poi, osserverà che non si è mai fotografato tanto come ai tempi di Instagram e dei social, che dunque sono non un freno ma un incentivo a scattare; ma qui si sta parlando di fotografia non come condivisione estemporanea di appunti e parole, ma come tentativo di “toccare la vita con gli occhi”.

Se poi però ci rifletto ancora e ancora, mi dico che forse no, a grattare bene non c’è narcisismo, non c’è un “Bar Sport” della fotografia dove tutti siamo critici e maestri, non c’è la caccia al like come appagamento, non c’è la ruota del pavone; ma c’è piuttosto – e ne siamo perfettamente consapevoli – un grande inganno, una cupa illusione, una bolla senza tempo da cui tutti vorremmo fuggire per correre all’aria aperta fotografando come pazzi e pazzi di gioia per il solo fatto di poter liberamente e pienamente fotografare senza “strategie”.

La verità, forse, è che non possiamo più permettercelo (o riteniamo di non potercelo più permettere): per esistere nella realtà – anche come fotografi – siamo ormai costretti a esistere prima nella virtualità dove crearci un’identità “ex ante”, e se è davvero così non di scelta si tratta, ma di un triste obbligo all’egocentrismo.
Cercasi vernice arancio fluorescente per ridipingere la nostra Leica.

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