Sono sempre di più i contribuenti che optano per la cedolare secca come forma di tassazione dei redditi da affitto. Un successo dovuto anche alla diminuzione delle aliquote sui canoni concordati. Ma i vantaggi sono tutti dei proprietari. Forse la misura va limitata ad alcuni tipi di contratto.

di Raffaele Lungarella (Fonte: lavoce.info)

Alto tasso di gradimento

Nei suoi primi quattro anni di applicazione, la cedolare secca ha fatto registrare un buon successo, ma rischia di diventare un’agevolazione svincolata da qualsiasi interesse pubblico. Lo mettono in luce le statistiche sulle dichiarazioni dei redditi del 2015 (anno fiscale 2014) pubblicate dal ministero dell’Economia e delle Finanze.

Nell’anno fiscale 2014 i contribuenti che hanno scelto di tassare i loro ricavi da canoni con la cedolare secca sono stati poco meno di 1,5 milioni: rispetto al 2011 (primo anno della sua applicazione) il numero è quasi triplicato. Secondo i dati dell’Agenzia delle entrate, i 2,7 milioni di abitazioni di proprietà di persone fisiche (condizione per l’applicazione della cedolare) date in affitto sono possedute da circa 2 milioni di persone. Pertanto, tre proprietari su quattro ricorrono alla cedolare per affittare le loro case (stimabili in poco più di 2 milioni di case). I proprietari che applicano l’Irpef sono diventati quindi una minoranza, che può ridursi ancora nei prossimi anni, con il rinnovo dei contratti già assoggettati a Irpef. D’altra parte il vantaggio economico che ottengono non è piccolo.

Dalla cedolare sono attratti soprattutto i proprietari che affittano a canoni di mercato, tassati con l’aliquota del 21 per cento (fin dall’inizio). Nel 2014 sono stati quasi 1,2 milioni, circa l’80 per cento del totale di chi ha scelto questa imposta (8 punti in meno del 2011).

Dal 2014 (e fino al 2017) l’aliquota per i canoni concordati è il 10 per cento; era il 15 per cento l’anno precedente e il 19 per cento nel 2011 e 2012. E perciò si è avuto un boom di opzioni per la cedolare. Nel 2014 l’hanno preferita 311mila contribuenti, un numero quasi doppio rispetto al 2013 (2013/2012 +60 per cento). La riduzione dell’aliquota ha reso conveniente applicare la cedolare secca anche ai contribuenti che non superano i 15mila euro di reddito del primo scaglione Irpef: nel 2014 sono diventati quasi 50mila, tre volte rispetto all’anno precedente.

Il peso per l’erario

Naturalmente, sono aumentati anche l’imponibile assoggettato a cedolare e il relativo gettito. Quest’ultimo, nel 2014 ha superato i 1.750 milioni di euro, 250 milioni in più rispetto all’anno precedente, ed è esattamente il doppio di quanto incassato dall’erario nel 2011; il gettito complessivo nei quattro anni è stato di 4,5 miliardi.

Questo non significa che le entrate dello Stato siano cresciute degli stessi importi. Al contrario, è verosimile che la cedolare costituisca un peso per il bilancio. Se tutti i contribuenti che hanno optato per questa formula fossero migrati dall’Irpef, il fisco ci avrebbe rimesso oltre 1.650 milioni di euro nel solo 2014. La perdita di gettito si azzererebbe se fossero stati regolarizzati intorno a un milione di alloggi fino ad allora sfuggiti al fisco. Ma prima dell’introduzione della cedolare il segmento dei contratti in nero era stimato in sette-ottocentomila unità. D’altra parte, la Corte dei conti valuta che nel 2011-2012, la cedolare abbia “prodotto solo uno spostamento di imponibile dal regime Irpef ordinario”, mentre dal 2013 per la riduzione dell’aliquota sui canoni concordati, ha richiamato “non solo locatori che già dichiaravano ma anche evasori fino ad allora sconosciuti al fisco”. Attribuendo all’emersione l’intero incremento di gettito della cedolare sui canoni concordati tra il 2012 e il 2014 e il 15 per cento di quello sui canoni liberi, la perdita per il fisco nel 2014 si attesterebbe comunque sul miliardo di euro.

La cedolare come agevolazione?

Sotto quest’ipotesi, il risparmio d’imposta di chi già tassava con l’Irpef i proventi da canoni è valutabile in 1,3 miliardi di euro. Una somma rilevante, incassata dai locatori senza sopportare alcun sacrificio. Possono, infatti, avvalersi di quella che di fatto è una agevolazione, senza che dover rinunciare ai livelli di canoni stabiliti dal mercato o concordati tra le associazioni dei proprietari e degli inquilini. I proprietari potrebbero volontariamente trasferire agli inquilini una parte del beneficio fiscale riducendo gli affitti. Ma se in questi anni i canoni si sono ridotti, rispetto ai livelli pre-crisi, lo si deve principalmente alla domanda fiacca e alla riduzione dei redditi. È molto più probabile che l’applicazione della cedolare sia stata non l’occasione per una riduzione dei canoni, ma lo strumento attraverso cui i proprietari hanno potuto contenere la riduzione dei rendimenti dei loro investimenti.

Poiché i canoni concordati sono più bassi di quelli di mercato, la loro diffusione può costituire la principale, se non l’unica, funzione di interesse pubblico della cedolare, anche se il proprietario incamera tutto il risparmio d’imposta. Come si vede dai dati, chi intende affittare a canone concordato è molto sensibile all’aliquota della cedolare. Non sarebbe allora il caso di iniziare a discutere dell’opportunità di limitarne l’applicazione a questa tipologia di canoni, anche per facilitare la ricerca delle coperture di bilancio per garantire l’aliquota del 10 per cento oltre il 2017?

* Raffaele Lungarella, laureato in scienze statistiche ed economiche, è stato docente a contratto di economia applicata nell’università di Modena e Reggio Emilia, dove è stato anche cultore della materia di economia politica. Ha diretto il nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della regione Emilia-Romagna; dello stesso ente è stato responsabile dei servizi politiche abitative e lavori pubblici. È stato anche responsabile del servizio finanziamenti per l’innovazione tecnologica di una società finanziaria. Ora è in pensione.

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