Il dibattito sulla guida del centrodestra, i rapporti con Forza Italia, i risultati elettorali poco soddisfacenti e uno scenario politico troppo ballerino fanno da sfondo alla prima vera crisi della leadership di Matteo Salvini. Al di là delle immagini rassicuranti in arrivo dal Papeete beach di Milano Marittima, il leader del Carroccio quest’estate naviga in acque agitate, per di più senza una meta apparente. Il morale della ciurma è al ribasso e per il mese di settembre è prevista burrasca: i leghisti vogliono sapere verso quale porto sono diretti, ma il Capitano non lo sa.

L’uomo giusto (fino ad oggi) – Matteo Salvini è stato l’uomo giusto al momento giusto. Alla Lega serviva un urlatore, un uomo capace di far dimenticare tanto i disastri della parabola bossiana, quanto gli attriti della parentesi maroniana. Dal cilindro è stato tirato fuori lui, un ragazzotto di Milano cresciuto in consiglio comunale, capace di incarnare il ruolo del salvatore della patria con la genuinità dell’uomo della porta accanto. Ha preso una Lega disastrata e l’ha trasformata in qualcosa di nuovo e di diverso. Una ventata di aria fresca in una destra stantia, che ha restituito speranza all’elettorato di area, portando il Carroccio su vette mai toccate prima. Nel giro di pochi mesi è stato messo in crisi l’intero patrimonio di valori storici del partito, un bagaglio messo insieme in oltre venti anni di storia sotto la guida di Umberto Bossi. Salvini ha spostato l’orizzonte: dalle tasse alle pensioni. Dalla provincia alle periferie. Dalla fabbrichetta alla casa popolare. Dalla Padania all’Europa. Da Miglio alla Le Pen. Uno shock per l’elettore tradizionale. Il gioco, però, ha funzionato attirando migliaia di nuovi consensi, che hanno consentito a Salvini di affermarsi e rimanere saldo al suo posto, superando scetticismi e frizioni interne. Almeno fino ad oggi.

Situazione confusa – La situazione in questa estate strana, è decisamente confusa. Le elezioni amministrative di giugno non sono andate come Salvini sperava. Se la Lega ha tenuto (e si è affermata) nei piccoli comuni, è però caduta sugli appuntamenti più rilevanti, collezionando figure difficili da digerire. Ha perso nella piccola ma simbolica Varese, un tempo capitale del leghismo. Ha portato poca, pochissima, acqua al mulino di Giorgia Meloni che ha fallito l’obiettivo del ballottaggio nella Capitale. E, soprattutto, ha perso a Milano, dove la Lega è rimasta al lumicino del 10%, facendosi superare (di molto) da una Forza Italia troppo spesso data per morta, segando così un altro punto di fragilità nella gestione salviniana. Insomma, il segretario ha steccato tutti gli obbiettivi di livello. Sullo sfondo della sconfitta milanese ci sono anche i rapporti tesi con il candidato Stefano Parisi, ora lanciato da Berlusconi nella corsa alla guida del centrodestra, proprio in contrapposizione a Matteo Salvini.

Equilibri in crisi – Una situazione così agitata non poteva non mettere in crisi gli equilibri interni al partito e sono in molti quelli pronti a scommettere che a settembre scoppierà il bubbone, aprendo un confronto aspro interno alla Lega. Dai corridoi di via Bellerio (che da qualche tempo sono decisamente disadorni e poco frequentati) detrattori e sostenitori hanno però una certezza: alla fine la segreteria di Salvini non verrà messa in discussione. Troppo ampio il seguito che il “Capitano” è riuscito a costruire attorno alla propria figura, non bastano certo le schermaglie di partito ad incrinarne il consenso. Ed è proprio la macchina del consenso uno dei punti di attrito interno.

Corpo estraneo – Quando è arrivato alla segreteria, Matteo Salvini si è liberato nel giro di pochi mesi di una struttura elefantiaca, frutto (anche) di una stratificazione delle più classiche clientele di partito, figlie di un passato da dimenticare e che nel tempo sarebbero state difficili da controllare. Così, dimostrando determinazione e cinismo, Salvini ha smantellato uno ad uno tutti i pezzi dell’ingranaggio: nel 2014 hanno chiuso i battenti Telepadania e lo storico quotidiano La Padania a ruota anche 71 dipendenti della Lega hanno dovuto fare gli scatoloni e lasciare la sede di via Bellerio. È rimasta attiva solo Radio Padania, struttura fedelissima a Salvini (che ne è stato anche direttore).

Fatta fuori la vecchia macchina, il segretario ne ha costruita una nuova. Attorno alla figura del leader è nato un team composto da soggetti esterni, privi di una storia organica al partito. Una corte di fedelissimi, come il super consulente Luca Morisi (che gestisce i social network), entrati a gamba tesa nella vita del partito. Professionisti vissuti come un corpo estraneo che, con le prime difficoltà, hanno iniziato ad essere messi in discussione in maniera esplicita.

Vecchi valori – Apparentemente la frizione con la corte di Salvini è alimentata da militanti della Lega Lombarda guidata da Paolo Grimoldi. Attriti e antipatie di natura personale che hanno come terreno di scontro la linea politica: gli uomini del segretario regionale Grimoldi, pur giovani, sono affezionati alla linea pre-salviniana. Dopo i risultati poco soddisfacenti della Lega nazionale vorrebbero meno lepenismo e uno sguardo concreto ai temi delle radici. Parlano delle questioni irrisolte come la pressione fiscale per le piccole imprese, temi che in passato hanno fatto la fortuna della Lega Nord. Che i vecchi temi stiano conoscendo una nuova primavera, lo si capisce anche dal calore ritrovato per il vecchio leader. Umberto Bossi ha ripreso a frequentare con entusiasmo e assiduità le feste del partito. Spesso e volentieri sale sul palco e prende la parola. I suoi sono discorsi concreti che scaldano gli animi dell’elettorato storico. Certo, Bossi non riprenderà mai le redini del partito, è fuori discussione. Ma l’entusiasmo che raccoglie di questi tempi è un chiaro avvertimento per Salvini.

Il terzo incomodo – In questo dualismo tra vecchia e nuova Lega si inserisce il terzo incomodo: Roberto Maroni. Il governatore lombardo – autonomo nel pensiero rispetto alla linea ufficiale del partito – rimane il personaggio più forte all’interno del Carroccio. Poco incline ad una guida populista in stile salviniano, Maroni ha dimostrato in più di una occasione di essere decisamente a suo agio nel ruolo di tessitore di trame politiche. Distante dalle posizioni del segretario compie atti difficili da conciliare con le posizioni pubbliche di Salvini. Dalla nomina di Antonio Di Pietro alla guida di Pedemontana, all’appoggio esplicito di Stefano Parisi, passando per il dialogo mai interrotto con tutte le anime del centrodestra (da Lupi in giù).

Discorso a parte per il Doge Luca Zaia che, al momento, osserva da lontano. Come da tradizione il partito in Veneto vive di vita e regole proprie, con dinamiche spesso distanti dalle beghe di via Bellerio. Zaia in questo scenario rimane una delle figure più carismatiche e credibili dell’intero parterre leghista, più moderato del Capitano, forte di esperienze di governo positive, è un personaggio gradito a molti. Salvini lo deve temere più come possibile alternativa leghista nella corsa alla leadership del centrodestra che nella battaglia per la gestione del partito.

Salvini indeciso – Tre scenari che coveranno per tutto il mese di agosto per esplodere a settembre. Nessuno nella Lega può permettersi di mettere apertamente in crisi Salvini. Ma il dibattito ci sarà. Il segretario verrà messo alle strette e dovrà indicare una rotta. Molti i punti da chiarire. Vuole il partito nazionale o sceglierà di far convivere due anime distinte a nord e a sud? Continuerà da solo sulla linea Lepenista o scenderà a miti consigli con il resto del centrodestra? Un dibattito che rischia di trascinarsi per settimane e diventare logorante. Ma c’è da aspettarsi che, almeno fino al voto del referendum costituzionale, Salvini non sciolga le riserve sulla strada che la Lega dovrà seguire in futuro. Una parola definitiva potrà essere spesa solo quando saranno chiari i tempi del ritorno alle urne. Il capitano arriverà probabilmente al congresso di dicembre con una lega sfilacciata e stanca, forse non abbastanza per fargli decidere di cedere il timone

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