Conosco uno che va ancora in giro con le foto dei figli nel portafoglio, ma conosco solo lui. Noi le schiaffiamo direttamente sui social, mettiamo a nudo pezzi di intimità domestica, orgoglio di mamma e papà, felicità digitali. E mentre le foto galleggiano libere nel web approdano anche sullo schermo di chi non ci conosce, apriamo a un mondo (che vogliamo ignorare) le “porte di casa”.

Il punto è che sul pianerottolo non ci siamo noi adulti, ma i nostri figli. E se a loro l’idea non piacesse? Glielo abbiamo mai chiesto? E se anche glielo chiedessimo siamo sicuri che risponderebbero liberamente la verità? O ci hanno visto talmente tante volte ignorarli, perché dovevamo postare urgentemente l’ennesima fuffa prima che il mondo (virtuale) si dimenticasse di noi, che ormai hanno (dis)imparato da noi? I nostri figli sanno (come se noi grandi lo sapessimo) che le foto per le quali non gli abbiamo chiesto l’autorizzazione diventano patrimonio pubblico?

Che quelle foto resteranno online per chissà quanto? I nostri figli manifestano la necessità dei genitori di essere esibiti come trofei di famiglie perfette, missioni compiute, benessere invidiato, bambolotti da palcoscenico? Non si tratta solo, per quanto drammatico e stavolta sì, vero, del mercato che si consuma sulla pelle dei nostri figli a loro insaputa e a nostra ignoranza (il 50% di queste foto è preda di siti pedopornografici), si tratta del rispetto dei figli, di ciò che sono e non di quello che vorremmo che fossero ogni dannata volta che li sbattiamo sulla nostra “prima pagina”. Internet ha reso possibile un palcoscenico per tutti, così radicato da aver modificato abitudini reali, relazioni sociali e principi morali. Usare i nostri figli per tutto questo significa esporli, esibirli, dimenticando, per ego, che era, almeno, necessario chiederglielo. Ma forse li avremmo convinti che il mondo è cambiato ed è giusto così: oggi tutto è a portata di click e ci basta strisciare.

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