I punk gridavano “no future”. Uno slogan, certo, ma anche qualcosa di più. Una poetica, forse. Un immaginario scandito in due parole. No future. Nessun futuro. Poi il mercato ha fagocitato il tutto e ne ha fatto una scritta da stampare su t-shirt e spillette in serie: è storia. Poi il punk è diventato un genere musicale, dove l’urgenza del comunicare anche a discapito del non saperlo fare bene è diventato una cifra, uno stile. Essere brutti, sporchi e cattivi è diventata una moda, come tutte le mode replicabili, reiterabili, addirittura buone per un revival.

Ricorrono in questi mesi i quarant’anni del punk e a aprire le celebrazioni è stata la Regina Elisabetta II, la stessa che campeggiava proprio nelle t-shirt in questione, una spilla da balia a tapparle la bocca. Dopo il punk, quello inglese, perché il punk vero era nato in America qualche anno prima ed era decisamente meno imbrigliabile, c’è stata la New Wave e tutto quello che ci hanno regalato e negato gli anni Ottanta.

Il punk ha proseguito la sua folle corsa sghemba, regalandoci l’hardcore nelle sue varie sfaccettature. Una di queste si chiamava Husker Du, e saltava fuori da Minneapolis, la città gemella del Minnesota. Un trio, perché tanti bastavano a sprigionare tutta quell’energia: Bob Mould, voce e chitarra, Grant Hart, voce e batteria, e Greg Norton, basso e baffi a manubrio. Niente sarà più come prima. Per chi scrive, che ha visto il proprio cuore di adolescente infrangersi nelle canzoni dolorosamente urlate del trio con le camicie a scacchi, specie in quelle tossiche di Grant Hart, e di una intera generazione di rockettari duri e puri, che hanno visto in quelle chitarre distorte, in quelle melodie quasi beatlesiane, in quei testi rabbiosi e soprattutto struggenti qualcosa che non si era mai visto e sentito prima.

Tra questi c’erano sicuramente i ragazzi che daranno vita a una stagione incredibile di musica come, temiamo, non ci capiterà più di ascoltare, se non per stessa voce dei pochi protagonisti di quella generazione ancora in vita. Si parla del grunge, ovviamente, che del punk è stato parente stretto, non tanto per influenze musicali, quanto per essere stato, probabilmente, con il rap, l’ultimo genere a aver scavallato la controcultura giovanile e a essere diventato parte di quel sistema che, più o meno consapevolmente, voleva combattere. Del grunge ma anche del rock alternativo che animerà quegli anni.

A dare uno sguardo ai cartelloni dei Festival di quel periodo, il Lollapalooza in testa, o anche un’occhiata alle classifiche alternative dell’epoca e facendo un paragone con quel che circola adesso viene da prendere la rincorsa, possibilmente da in cima a una discesa, correre a perdifiato e piantare una testata in uno spigolo, sperando negli effetti benefici di un trauma cerebrale, auspicando qualcosa di vicino a una amnesia permanente, o quantomeno a una serena idiozia autoindotta. Qualche nome? Santo Iddio, c’erano i Pixies, i Jane’s Addiction, i R.E.M., i Nirvana, i Soundgarden, i Pearl Jam, gli Smashing Pumpkins, i Sonic Youth, i fIREHOSE, i Rage Against the Machine, i Living Colour, i Primus, i Faith No More, i Pavement, la Rollins Band, i Dinosaur Jr.

Alcuni, è vero, si sono rimessi insieme, per soldi o magari anche solo per nostalgia, stanno andando in giro proprio adesso, e andare a riascoltarli ci riporta a quando non avevamo la pancia così prominente, quando avevate ancora tutti i capelli (io quelli li ho ancora lì, tutti, solo un po’ più brizzolati), quando ancora ci credevamo davvero. Poi ci sono loro, i Dinosaur Jr di J Mascis, che fanno incrinare il nostro teorema. Perché loro sono ancora lì, dopo una piccola parentesi, come prima e più di prima. J Mascis continua a sfornare sempre le stesse canzoni, album dopo album, come se fossimo ancora nel 1992. Per capirsi, prima che Berlusconi scendesse in campo, prima dell’euro, prima della rete a casa di tutti e dei social, prima del Pokemon Go. L’ultimo album tirato fuori dal nostro, i capelli lunghi e grigi, lo sguardo apparentemente non lucidissimo di chi ha visto o sentito troppo per farsi andare bene il mondo come è, si intitola Give a Glimpse of What Yet Not, ed è un capolavoro.

È un capolavoro pieno di canzoni che non finiranno in radio, non avranno milioni di visualizzazioni su Youtube, non diventeranno manifesto di niente per nessuno. Canzoni che, fossero uscite trenta anni fa, sarebbero suonate alla stessa maniera, stessa modo di scriverle, la sua, stessa modo di suonarle. Riff di chitarra come se fossimo sotto attacco alieno e come se gli alieni potessero essere sconfitti solo da quelli (lo so, ho visto troppi film di Tim Burton e Robert Rodriguez), voce storta e dinoccolata, come l’aspetto, canzoni quadrate, perfette, macchine del tempo che ci risputano in anni in cui Laura Pausini ancora cantava in balera. Parti da Goin Down e già ti potresti fermare lì. Anzi, io mi ci sono proprio fermato e sono riuscito a passare alle altre dopo un paio di giorni in cui questo brano l’ho ascoltato qualcosa come cento volte. Un tempo c’era il tasto repeat dello stereo, adesso tocca fare a mano, ma va bene lo stesso. Gli anni Novanta vivono ancora nella voce e nella chitarra di J Mascis, e nel basso del ritrovato Lou Barlow e nella batteria del prezioso Murph. E siccome, se ne prenda atto, gli anni Novanta sono stati il decennio più importante del rock, dopo quegli anni Settanta che così tanto ci hanno regalato, essere proiettati di nuovo lì è un regalo che non possiamo assolutamente perderci. Dio salvi J Mascis e lo preservi a lungo, perché tanto, ci par di capire, la Regina va già avanti di suo.

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