Il valore delle relazioni di aiuto – la psicoterapia in primis – sta nella possibilità non solo di farti conoscere il “male“, ma di comprendere le ragioni del “male”, permettendoti di non fare di un singolo individuo il capro espiatorio di una società intera. Puntare il dito è uno degli sport preferiti di coloro che non trovano il giusto equilibrio tra la dirompenza dell’emotivo e la scomodità del razionale.

Il sistema mondo non va. Migrazioni, guerre, terrorismo, follie individuali e collettive lo testimoniano con forza negli ultimi tempi. Noi siamo il sistema e, anche se esso ha una parte pensante nei luoghi inaccessibili del potere, una testa senza il corpo va poco lontano. Il male è banale, come diceva Hannah Arendt e in esso non vi è niente che sia scritto o determinato. Il male è un reagire. Nessuno nasce malvagio, lo possono diventare le sue azioni, in risposta agli eventi della vita. Violenza chiama violenza.

Nessuno darebbe del malvagio a un leone che sbrana la sua preda, eppure non meno vera e forte è la sofferenza di chi spira tra le fauci della fiera. L’uomo è un animale superiore, ha possibilità di pensiero, e questo significa che ha possibilità di azione e di scelta. Assumersi la responsabilità del proprio agire significa sapere da dove nasce e le conseguenze alle quali porta.

E’ tempo di violenza lampo, improvvisa, senza controllo. Gli attentati si susseguono, basta che anche un singolo individuo perda il controllo, o sia volutamente guidato e aiutato, per far conoscere terrore e morte nei posti che pensavamo lontani da ogni pericolo. Sembra non ci sia più sicurezza nei ruoli, in un lavoro che garantisca stabilità e progettualità di vita, nello stile di vita occidentale sempre più alienato da una tecnologia che veste a festa la superficialità spacciandola per progresso. In definitiva, sembra quasi non ci sia più sicurezza di arrivare a fine giornata.

La diminuzione della sicurezza è compensata da un aumento del narcisismo di massa. Se ogni momento è precario, pensare al domani ha meno senso. Ci si sveste di un sano pudore di cui non solo non si è più gelosi, ma che sembra essere quasi gettato in faccia all’altro. L’obiettivo è far intendere quanto si sta bene. Se l’altro pensa che io stia bene, me ne posso convincere. E’ qui la fregatura del virtuale, crea una zona di comodo tra la realtà e la fantasia. Chi sta bene non ha bisogno di dimostrarlo.

Voler apparire fa sì che il giudizio dell’altro diventi parametro del proprio valore e ci si esclude dal poterlo valutare da soli. Il narcisismo è la nuova dipendenza, permette di colmare i vuoti lasciati dalla mancanza delle più classiche sicurezze: casa, lavoro, famiglia. Il desiderio non è più una possibilità, ma un diritto. “Desidero quindi vorrei” è sostituito da “desidero quindi pretendo“.

Quando quel che si desidera viene a mancare, perché il narcisismo non implica l’onnipotenza, allora la normale frustrazione che ne dovrebbe scaturire, il sano senso del limite con cui ci si dovrebbe confrontare e che dovrebbe contribuire a una crescita sana, muta e diventa rabbia vendicativa, intolleranza e va a intaccare paradossalmente quello da cui tutto è nato: l’ego, l’autostima. Quindi è sempre l’insicurezza a fare man bassa.

Cosa può portare una persona a uccidere e farsi uccidere? Cosa ha provocato quel tilt oppure quella deliberata scelta? L’uccidere e l’uccidersi implicano sempre una certa spettacolarità. Nell’annientare e nell’annientarsi c’è la consapevolezza dell’aumento della propria visibilità, c’è il ruggito finale di un ego ormai fuori controllo.

L’uccidere e l’uccidersi implicano sempre il fare i conti con un’insicurezza di base che non è più sostenibile, se non con l’annullamento del proprio e dell’altrui vivere.

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Vignetta di Pietro Vanessi

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