Quanti vorrebbero vedere l’orso Baloo, la pantera Bagheera e persino Shere Khan, la tigre cattiva de Il libro della giungla, sterminati dai bracconieri o dalla distruzione dei loro habitat? Probabilmente nessuno, o quasi. Non sorprende quindi che oggi, in occasione della Giornata mondiale della tigre, media e ambientalisti si stiano (giustamente) mobilitando per salvare dall’estinzione il più grande felino del mondo.

Ma che dire di Mowgli? Quanti si stanno anche preoccupando per il destino dei popoli che abitano le foreste indiane, e quanti sanno che molti di essi vengono sfrattati illegalmente nel nome della conservazione di flora e fauna? Nonostante abbiano convissuto per secoli e in modo sostenibile con tigri e altri animali senza mai minacciarne la sopravvivenza, i popoli indigeni dell’India perseguitati nel nome della conservazione oggi sono moltissimi. E quasi ovunque le loro storie riassumono in sé sia il racconto di una tragedia inutile sia quello di una commovente resistenza.

Nel paese, l’idea prevalente è quella che la crescita demografica post-coloniale abbia reso “inevitabile” il conflitto dell’uomo con le tigri e altre specie animali. La conseguenza implicita di questa visione è la convinzione che ad aver messo in pericolo la tigre siano state le comunità locali, soprattutto indigene – e non la caccia di trofei tanto di moda nell’epoca coloniale.

Eppure, il tasso di diminuzione delle tigri durante l’impero britannico è impressionante. Non sappiamo con precisione quanti fossero questi felini nel XVIII secolo, quando arrivarono i primi mercanti britannici, ma stime risalenti alla fine del XIX secolo parlano di un numero tra i 50.000 e i 100.000 esemplari: ebbene, entro il 1950 questo numero era crollato a meno di 2.000, quasi interamente a causa della caccia sportiva. Gli amministratori coloniali britannici e gli aristocratici indiani organizzavano spesso spedizioni nel corso delle quali dozzine di grandi felini venivano attirate davanti ai fucili per essere massacrate in massa.

Non c’è dubbio che sia giusto adottare misure per proteggere questi animali e la loro popolazione a riprendersi. Ma è accettabile che queste misure prendano di mira tribù che hanno avuto ben poco o addirittura nulla a che fare con la caccia di questi animali oggi a rischio e che oltretutto, in molti casi, considerano la tigre un animale sacro? La risposta è – ovviamente – no. Tuttavia, tra le autorità indiane sembra prevalere l’idea che le riserve delle tigri debbano essere zone selvagge e disabitate, dimora quasi esclusiva della fauna selvatica.

E allora, proprio per creare queste aree artificiali di wilderness incontaminata, gli indigeni vengono allontanati: in molti casi devono abbandonare le terre ancestrali e stili di vita perfettamente sostenibili per finire in povertà, ai margini della società indiana. “Eravamo i re della giungla, ma qui ci trattano come cani” ha spiegato un uomo Baiga sfrattato dalla riserva di Kanha.

Parliamo di “dimora quasi esclusiva della fauna selvatica” perché, in realtà, le autorità indiane sono molto permissive verso un’altra forma di contatto umano all’interno delle riserve: il turismo. Mentre le tribù vengono sfrattate illegalmente, infatti, facoltosi visitatori provenienti dall’estero e dall’India urbana girano per le riserve in convogli di jeep per scattare foto e avvicinare i felini. Lasciano spazzatura, disturbano quella stessa fauna che dovrebbe essere protetta e, oltretutto, abituano le tigri ai veicoli e alla presenza umana, rendendole più vulnerabili al bracconaggio.

“Ci sono tre o quattro residence turistici nella riserva. Non è bene. I turisti creano problemi. Spaventano gli animali e gli indigeni” ha detto a Survival un uomo Soliga. “La gente dalla città porta cattive abitudini – alcool, fumo, auto e immondizia”. Ma dal punto di vista delle autorità locali, l’importante sembra essere il bilancio finale: i visitatori pagano prezzi elevati per avvistare le tigri in un ambiente “autenticamente selvaggio” e libero dalla presenza umana – e quindi i diritti delle comunità indigene possono essere ignorati.

Un rapporto della Corte suprema indiana sui trasferimenti degli indigeni ha affermato di non aver trovato “un solo indigeno che goda dei frutti dello sviluppo”. E in merito ai tanto decantati vantaggi che deriverebbero dai trasferimenti, lo studio ha rivelato che per sfamare un’intera scuola di bambini indigeni ricollocati veniva fornito un solo litro di latte, e che dei ventidue pozzi scavati di recente in una delle aree di reinsediamento ne funzionavano solo due.

Le grandi organizzazioni per la conservazione non denunciano questi problemi e, al contrario, sostengono un modello di conservazione misantropico e anti-indigeno. La conservazionista indiana Krithi Karanth ha affermato paternalisticamente che i popoli indigeni vivono nel “timore costante di elefanti, leopardi e tigri” e ha detto che “a volte bisogna fare scelte difficili, e in alcuni casi questo comporta spostare delle persone”.

Questo debole tentativo di manipolazione esemplifica la visione di molti movimenti conservazionisti che si considerano i soli, legittimi custodi del mondo naturale, di fronte ai quali le tribù “primitive” devono essere portate per mano verso il “progresso” – se necessario, con la forza. Ma perseguitare le tribù non serve a risolvere i danni ecologici causati da decenni di caccia ai trofei e perdita di habitat.

La legge indiana riconosce ai popoli indigeni il diritto di vivere nelle e delle foreste, anche se si trovano all’interno delle riserve delle tigri; a migliaia, però, devono “acconsentire” ad andarsene contro la loro volontà. Per proteggere in modo adeguato la natura dovremmo lavorare con – e non contro – chi la conosce meglio di chiunque altro. I popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale. Punirli per i nostri sbagli è insensato, sbagliato e controproducente.

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