La legalità, che anche Benedetto Croce considerava come primo grado della vita pratica, condizione della vita morale e della libertà (La religione della libertà, 1932), è uno dei capisaldi fondamentali del sistema liberale. Essa implica, da un lato, che solo la formulazione legislativa può garantire la certezza del diritto e quindi la certezza della libertà, e, dall’altro, che il diritto sia formulato in leggi e che le leggi siano costruite attraverso un costante procedimento fissato in anticipo, in modo che sia retto dalla legalità anche il metodo di emanare le leggi. Il principio di legalità, dunque, non riguarda soltanto la struttura delle proposizioni in cui il diritto viene formulato, ma anche la Costituzione e il metodo degli organi ai quali è affidato l’ufficio di formularlo. Questo modello entra definitivamente in crisi all’indomani della Prima guerra mondiale e la degenerazione positivistica dello Stato legislativo parlamentare svela impietosamente la vulnerabilità di una concezione formale della legge, secondo cui il Parlamento è fonte esclusiva di diritto, sacrificando tutte le garanzie di giustizia e razionalità al volere di un’occasionale maggioranza.

Il giurista tedesco, all’epoca nazionalsocialista, Ernst Forsthoff, nel 1933, criticando la repubblica di Weimar, delineava il significato che per i dominanti ha la legalità e l’apparato che la persegue (Der Totale Staat): “Chi ha lo Stato, fa le leggi e, cosa non meno importante, le interpreta (…). Egli stabilisce che cosa è legale (…) La legalità è quindi qualcosa di puramente formale e non significa altro se non che la volontà di un qualsiasi partito (…) è diventata disposizione di legge (…). La legalità è il mezzo con cui colpire il nemico politico: dichiarandolo illegale, ponendolo fuori dalla legge, squalificandolo dal punto di vista morale e consegnandolo all’eliminazione per mezzo dell’apparato statale (…). In particolare il campo discrezionale che le leggi devono lasciare aperto all’azione statale permette di volgere quest’azione contro il nemico politico”.

Anni dopo, Carl Schimtt (Il problema della legalità, 1950), chiarisce ulteriormente la funzione che la legalità ha per i dominanti: “La legalità diventa l’arma avvelenata con la quale si colpisce alle spalle l’avversario politico. In un romanzo di Bertold Brecht alla fine il capo dei gangster comanda ai suoi seguaci: il lavoro deve essere legale. La legalità finisce qui come parola d’ordine di un gangster”. Quindi, “la minaccia di processi politici può sempre essere un efficace mezzo di pressione, particolarmente quando il minacciato è completamente estraneo al mondo dei processi di quale tipo”.

L’oratoriano Lucien Laberthonnière (Critique de la souveranité de la loi, pubblicato postumo in Oevres de Laberthonnière, 1947), sottopone a critica il concetto di “sovranità della legge”, opponendo alla famosa espressione di Aristotele, secondo cui “non gli uomini, ma le leggi” devono governare che dietro ogni legge stanno sempre uomini che si servono della legge come di uno strumento del proprio potere. Così da richiamare alla memoria di Carl Schimtt “la lunga serie di tribunali rivoluzionari, tribunali eccezionali, tribunali speciali, tribunali popolari, camere e istanze che sono stati attivi nel corso della storia e nelle cui mani la legge è stata strumento di persecuzione e vendetta”, il quale, tuttavia, “con grande commozione”, ne accoglie la “straordinaria dichiarazione: “Io non giudico la vittima, ma solo i giudici”.

L’illustre oratoriano muore nel 1932 e, a partire dal 30 gennaio 1933, Hitler inizia l’occupazione del potere in Germania, servendosi della legalità come della sua arma più efficace. Da fine agosto 1939, però, tutto il potere statale, a causa dell’evidente richiamo alle necessità d’una guerra totale si concentrerà nelle sue mani: legislazione, amministrazione e giustizia funzioneranno, ormai, con sempre minori ostacoli come apparati di comando.

Se Piero Calamandrei (Il regime dell’illegalità, in Non c’è libertà senza legalità, 1943-1944) segnalò la “putrefazione degli organi legislativi”, in Italia, durante il regime fascista, con “il Senato e la Camera (…) ridotti a società corali”, i cui membri venivano chiamati a “cantare nelle feste comandate gli inni della patria e della rivoluzione”, con “addosso quelle monture da lugubri bandisti da funerale, colla mappa oscillante”, pronti “i secchioni” ad esibirsi “al cenno”, la parabola hitleriana è da sola sufficiente a dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che, quando la forza del sovrano è al riparo da possibili scosse, la dottrina della legalità vigoreggia; quando, invece, questo non è, allora si proclama lo stato d’eccezione, ad esempio, sospendendo la pratica elettorale o, in tempo di guerra, la libertà di stampa. Pratica questa, del resto, che accomunò, tanto durante il primo quanto durante il secondo conflitto mondiale, tutti gli Stati belligeranti: anche nei Paesi a regime liberale emersero, infatti, figure egemoni, le quali non disdegnarono di assumere apertamente una gestione illimitata del potere: Georges Clemenceau, in Francia; David Lloyd George, in Inghilterra; il generale Erich Ludendorff, nella Germania pur dotata di un Parlamento eletto a suffragio universale; Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt, durante il secondo conflitto mondiale. E questo, naturalmente, a voler tacere, ad esempio, dell’odierno restringimento delle libertà personali, in conseguenza della guerra al terrorismo, rappresentata come la probabile guerra del futuro.

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