Ci sono luoghi particolari, vivi nella memoria collettiva ma presenti anche nel proprio vissuto personale. Luoghi che ci trasportano indietro, e si chiamano ricordi; e, nello stesso tempo, ci trascinano avanti, e si chiamano sogni. Non dimenticherò mai un pomeriggio estivo, né troppo freddo né troppo caldo a San Francisco, quando Richard Nixon rassegnò le dimissioni da presidente degli Stati Uniti. Un fiume di giovani aveva invaso la University Avenue, l’ampio viale in salita che porta all’ingresso del campus di Berkeley. Cantavamo e ballavamo tutti, il 30 luglio 1974.

Molti associano l’innovazione alla Silicon Valley, che non dista troppo dal campus di Berkeley. La maggior parte delle novità, non soltanto scientifiche e tecnologiche, ma anche molti progressi delle scienze umane, politiche e sociali sono però nati e cresciuti lungo un’altra strada. Sono le miglia magiche della Massachusetts Avenue, dove su una sponda del fiume Charles incontri la Boston University (fondata nel 1869) e sulla sponda opposta il Mit (1861) e, poco più a ovest, l’Università di Harvard (1636). A nessuno è ancora venuto in mente di delocalizzarle in qualche landa periferica del futuro.

Ho iniziato la mia carriera accademica ad Arcavata, dove nasceva l’Università della Calabria. Uno stupendo progetto scientifico e culturale prima che urbanistico. Laggiù uomini come Beniamino Andreatta costruivano politiche coraggiose con uno sguardo al futuro e senza dare troppo peso agli interessi contingenti. E la sto concludendo a Milano, dove c’è un’altra strada, meno nota di Massachusetts Avenue o della Nassau Street di Princeton, dove nel corso degli anni si sono insediate iniziative culturali e scientifiche non banali. È via Teodosio, dove un passante curioso incontra il Politecnico di Milano (1863) e parecchi istituti e laboratori del Cnr (1923), l’Istituto Neurologico Carlo Besta (1918) e l’Università Statale di Milano (1923) e l’Istituto Nazionale dei Tumori (1925).

Ciò che non accade a Boston, accade a Milano. In ossequio alla saggia politica urbanistica cittadina, sulla via Teodosio sopravviverà soltanto il Politecnico e, forse, qualche brandello di Cnr, perché a Milano il futuro non è più quello di una volta. Tutto il resto viene esploso in frammenti distribuiti su quei territori dove il privato – così bello nei pubblici proclami – non regge la scena senza l’ingresso trionfale di Pantalone. Pochi giorni fa l’Università Statale di Milano ha stabilito di trasferire il proprio campus nell’area Expo. Lo ha deciso il Senato Accademico, massimo organo democratico di auto-governo dell’ateneo, quasi all’unanimità. E non abbiamo udito neppure un fiato di qualche docente in lieve dissenso rispetto a questa decisione. Dalle notizie di stampa, il progetto culturale appare un po’ “vago”. Per non dire delle necessità materiali alla base di questa decisione. Poche storie, l’Università di Milano s’insedierà a Rho, dove ha scelto una localizzazione esilarante su cui varrà la pena di tornare, passando da 250mila metri quadrati a 150mila, giacché il futuro è sempre più immateriale.

Dubito che qualcuno dei decisori andrà mai a lavorare a Rho, poiché da parecchi anni l’età pensionabile dei professori sta scendendo, mentre sale quelle dei minatori; e lasceremo ai giovani più giovani questo onore. A Genova c’è un modo di dire assai volgare e politicamente scorretto per commentare questo tipo di decisioni, ma arrossisco solo nel pensarlo tanto da averlo già dimenticato. Mi limito così a riflettere che la mia generazione ha saputo soprattutto distruggere parecchie cose buone del passato, tanto i ricordi quanto i sogni, senza costruire il futuro. Come afferma un baby boomer mio coetaneo, Oscar Farinetti: «La mia generazione ha distrutto l’Italia. Ai giovani consiglio di non ascoltare i consigli». A Milano, non lontano da Città Studi, passa il fiume Lambro, un corso d’acqua isterico e maleodorante. Non il fiume Charles.

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