La strage di venerdì scorso a Monaco di Baviera porta ulteriori conferme alla tesi che il modo corrente con cui ci rappresentiamo il fenomeno terroristico è la via migliore per non capirlo, la peggiore per combatterlo. E i commenti (o meglio, gli insulti/invettive) nei confronti di analisi che non confermassero l’ansia di rassicuramento a mezzo insulti/invettive, sono la migliore riprova di questa incomprensione. E parlo anche per fatto personale, vista la quantità di vaffa che mi sono stati spediti via web perché sostenevo tesi fuori standard. Ripeto: l’idea di una matrice religiosa per gli attentati francesi è depistante, l’origine della violenza sanguinaria va individuata nel fallimento dei processi di integrazione, la soluzione non è l’esibizione muscolare bensì politica (bonifica delle aree di disagio e campagne promozionali della convivenza democratica in una società laica come opportunità, credibile anche per le nuove generazioni immigrate).

Invece permane questo atteggiamento psicotico da minaccia islamica incombente, per cui gli accadimenti – qualunque essi siano – vengono rimasterizzati sulla base delle idee preconcette del mainstream terroristico/terrorizzante. Ne sia riprova la sequenza di rumors, provenienti da ipotetiche “fonti informate”, che si accavallavano l’altro giorno da Monaco, omologando al format dell’ortodossia accadimenti di tutt’altra specie: “Gli assalitori erano un trio come già a Parigi”, quando in effetti si trattava di un cane sciolto; “uno degli sparatori uccideva urlando Allah Akbar Allah come durante l’irruzione nella sede di Charlie Hebdo”, quando il diciottenne tedesco di origine iraniana era un depresso cronico, intenzionato a sfogare la sua rabbia perché vittima di bullismi scolastici; “l’Is se è immediatamente attribuita la strage”, a riprova che nell’area europea questo è soltanto un brand in franchising.

Spiace deludere i tossicodipendenti da terrore, ma l’immagine del grande incubo dell’ombra jihadista che si stende sulle nostre città, lesionandovi in primo luogo le condizioni per una civile convivenza, va sostituita con quella di tanti medi incubi che magari si raccontano nel format retorico della religione (confusioni mentali e risentimenti assassini che cercano di mettere ordine nel proprio caos facendo riferimento a uno schema altamente mediatizzato e di sicura presa). Insisto su questa analisi perché nella lotta al rinascente stragismo vince chi fa meno errori.

Dall’alto (?) di mezzo milione di morti, della destabilizzazione dell’area mediorientale che ha prodotto le bibliche migrazioni che ora invadono le nostre coste, del fatto che i generali di Saddam ora guidano le armate dell’Is fino alla Libia, il duo Bush-Blair ha dimostrato quali cataclismi produca un’errata interpretazione dei fatti (o peggio, la loro manipolazione; tipo l’esistenza delle armi di distruzione di massa).

Infatti lo stragismo si nutre di innumerevoli motivazioni e si incarna nei soggetti più impensati. Secondo voi, era un islamico o un disturbato mentale quell’Anders Breivik che il 22 luglio di cinque anni fa massacrò 77 ragazzi nell’isola norvegese di Utoya?

Questo per dire che – una volta pagato doveroso pegno esecrando qualsivoglia strage e ribadita la propria ferma adesione ai valori occidentali – i fenomeni collettivi vanno esaminati per quello che sono. Anche nella loro tendenza a produrre effetti imitativi (il tifo da stadio più violento fece la sua comparsa in Italia sulla scorta del modello hooligans inglese: prima i nostri potenziali devastatori non ci avevano pensato).

Forse dovremmo riconsiderare con più attenzione la stagione insanguinata del nostro terrorismo, nei cosiddetti anni di piombo. Le cui radici erano il risentimento diffuso per la recessione economica e la frustrazione per le attese deluse dalla politica di centrosinistra. E che fu sconfitto grazie alle armi della politica, prima ancora che della capacità investigativa degli uomini del generale Dalla Chiesa.

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