Bernardo Provenzano è morto. Non riesco a provare nulla. Ho sempre pensato ai mandanti dei delitti che hanno insanguinato Palermo e che hanno straziato la vita di centinaia di persone, molte volte innocenti, come a persone senza sguardo, anche se con lo sguardo potevano decidere un assassinio. Addirittura a persone senza volto, anche se i loro volti erano ansiosamente cercati e simulati (i famosi identikit) dagli investigatori migliori.

Ho pensato a loro come fantasmi, anche se erano realissimi, piantati con prepotenza e ferocia nelle nostre vite e decisi a entrarci e a comandarle sempre di più. Li ho pensati avvolti in affetti immaginari, virtuali, anche se dotati di una loro indubbia carnalità: perché chi uccide e spezza esistenze e fa sciogliere nell’acido non può avere un figlio “vero”, non può fare l’amore “veramente”, non può provare le tenerezze che valgono la vita.

Erano latitanti per lo Stato, certo. Ma io ho pensato a loro come a latitanti dalla condizione umana. Per questo quando il 10 febbraio del 1986 entrai nell’aula bunker del maxiprocesso di Palermo e scrutai le gabbie in cui Provenzano non c’era, ma che erano ugualmente zeppe di killer e macellai, non provai nulla, stupendomene come per incanto, perché mai lo avrei detto. Giustizia sì, capii quella volta; ma nessuna vendetta, nessun perdono, materia che richiede l’esistenza di qualcuno. Per questo anche oggi non provo nulla. Assolutamente nulla.

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