Un ragazzino salta un cumulo di macerie che copre una bomba inesplosa e si infila tra le palazzine trivellate dai colpi di mortaio. Lì davanti, Sansye pulisce il piazzale della sua sartoria da cui esce un odore acido di metallo bruciato.  “Ecco cosa mi resta dopo 25 anni di lavoro e un mutuo in banca ancora da estinguere”, racconta, avvolta nel suo niqab colorato che le lascia scoperti solo gli occhi scuri, gonfi di lacrime: ha 45 anni, 6 figli, e non ha più né una casa né un lavoro.  “Cenere e detriti”, riprende, fissando in trance le sue costose macchine da cucire annerite dalle fiamme.

Circa tremila costruzioni sono state distrutte o incendiate durante l’ultima operazione anti-terrorismo del governo turco a Yuksekova, o Gever, città curda sulle montagne del Bakur (Kurdistan turco) al confine con l’Iran, dove l’Hdp (partito che unisce forze filo-curde e di sinistra guidato da Selahattin Demirtaş) alle ultime elezioni amministrative ha preso il 99% dei voti. Un consenso mai digerito dal presidente Erdoğan che, dalla brusca interruzione del processo di pace con il Pkk (il partito dei lavoratori curdi, considerato un’organizzazione terroristica) la scorsa estate, ha imposto tre coprifuoco 24 ore su 24 nella città, con tanto di bombardamenti e cecchini piazzati sui tetti. I primi due revocati nel giro di qualche giorno, dopo (in totale) sei morti e qualche arresto. L’ultimo, invece, è durato dal 13 marzo al 30 maggio ed è costato la vita a circa 150 persone, di cui la metà civili, una trentina i minorenni.  Il coprifuoco adesso è solo notturno, dalle 23 alle 6, e IlFattoQuotidiano.it è il primo giornale straniero a entrare nella città fantasma, dove il vento trascina adesso silenzio e polvere da sparo.

Per 78 giorni la vita si è fermata, lassù a Yuksekova, tra quelle stesse montagne in cui già negli anni Novanta il governo turco incendiò boschi e villaggi alla caccia del Pkk, costringendo migliaia di curdi a emigrare verso l’Iraq. La storia si ripete identica a se stessa, la Turchia si auto-bombarda, con l’unica variante che adesso il conflitto si è spostato nel cuore del centro abitato, tra i civili: saracinesche abbassate, scuole chiuse, accesso alla città proibito. Come fosse davvero una punizione divina per il nome che porta: Gever, da Gawar in aramaico, che significa non-musulmano, usato poi nell’islamismo per indicare gli infedeli.  Anche l’ospedale per 78 giorni è rimasto off-limits e messo a disposizione solo dei militari turchi, con medici e infermieri chiamati appositamente da Ankara. Chi è rimasto a Yuksekova, durante il coprifuoco, ha comprato cibo e acqua per mesi e si è chiuso in casa. Nessuna visita, nessun passatempo: solo tivù, per chi aveva elettricità, con in sottofondo il rumore delle bombe che faceva rivoltare anche il fegato. Gli altri, la maggior parte, se ne sono andati.

I guerriglieri del Pkk sono scesi dalle montagne e si sono uniti alle milizie delle Yps (Unità di protezione di civili): hanno alzato barricate e impugnato pistole e kalashinokov. Ankara dal canto suo ha messo in campo tutto il suo kit da guerra. I carri armati hanno sputato bombe sulle case, indiscriminatamente, mentre i cecchini sparavano a vista a chi usciva in strada, anche solo per cercare acqua. E i corpi rimanevano lì, in strada, putrefatti, diventando cibo per gatti affamati. Tre interi quartieri sono rimasti senza luce, acqua, gas: Gungar, Cumhuriyet e Dize, dove vivevano i combattenti, come altre migliaia di persone. Il conflitto era una prova di resistenza scontata: dopo venti giorni i guerriglieri erano tutti morti, ma il coprifuoco h24 è andato avanti per altri 58. E a quel punto le truppe turche sono entrate nei quartieri vuoti incendiando case, negozi, mezzi di trasporto in un delirio di autoflagellazione che Ankara ha chiamato “azione anti-terrorismo”, ma che di fatto è stato l’ennesimo massacro della popolazione curda e la distruzione di un’intera città, adesso tutta ricostruire.

“Ditemi perché? Perché hanno ucciso mio figlio?”, urla, davanti alle macerie di una casa, Kijmet Dogma, mamma di Jihat, 21enne, civile, freddato dalle forze speciali di polizia con sette colpi d’arma da fuoco, di cui alcuni alla testa. Una donna che si sta facendo in quattro adesso per dimostrare che a Yuksekova sono state usate anche armi chimiche. “Io ho lasciato Gever all’inizio del coprifuoco – racconta – lui invece non voleva lasciare casa. Un giorno mi ha chiamata per dirmi che gli bruciava tutto il viso e il corpo, che faceva fatica a respirare”. Fa una pausa, gingilla con un fazzoletto bianco e riprende: “Ho provato a tornare ma non mi hanno fatta rientrare. Qualche giorno dopo lo hanno ucciso. Quando sono andata all’obitorio per riconoscerlo un mese dopo, aveva tutto il corpo ringrinzito, bruciato. Accanto a lui altri corpi erano così. Una donna, poi, non aveva nemmeno la testa”. Nel referto dell’autoptica però non c’erano foto e alla donna non è stato permesso scattarle. “Non mi hanno nemmeno permesso di fare il funerale”, dice. Spalanca gli occhi per non far scendere le lacrime, perché troppo tosta per dimostrare un po’ di debolezza. “Lo hanno portato loro al cimitero e sotterrato senza cerimonia – riprende – come una bestia”.

Kijmet parla al IlFattoQuotidiano.it proprio mentre ad Ankara il parlamento approvava la legge per l’immunità ai soldati impegnati in operazione di “controterrorismo”: una legge retroattiva che assicura la copertura legale nel caso di abusi e crimini commessi durante le azioni sul campo. Giusto il contrario di quello che l’Unione europea sta chiedendo, invano, al Paese di fare per la tanto auspicata liberalizzazione dei visti ai turchi, prevista dall’accordo sui migranti: alleggerire la normativa anti-terrorismo. E invece operazioni identiche stanno andando avanti in diverse città del Kurdistan turco: Cizre, Sur, Nusaybin, Silopi, Sirnak, Yuksekum ormai non esistono più. “Continueranno a massacrarci finché non saremo morti tutti”, accusa Kijmet pulendosi la guancia umida sporca di polvere nera. “Ci accusano di essere terroristi tutti– continua – per farci fuori”.

In strada una bambina sui dieci anni fruga tra le macerie della sua casa insieme al papà in cerca delle cose ancora integre, poi le carica su un carretto già stracolmo, che però è tutto quello che ha. Chi è tornato a Yuksekova dopo 78 giorni di coprifuoco ha infatti trovato il deserto. Anche la scuola elementare è stata bombardata.“Sono andata a Van il 13 marzo, perché avevo visto quello che era successo a Cizre e non volevo vivere quell’inferno”, racconta Natem Yalmaz, 70 anni, che prima del coprifuoco aveva un negozio di elettromestici, finito poi tra le fiamme. Anche la sua casa adesso è solo una montagna di sassi ed è costretta a dormire in uno scantinato nella affollata casa della sorella fuori città. Cammina tra le macerie raccogliendo pezzi di ferro e scoppia a piangere: “Non ho più niente, niente”, dice.

Il silenzio nei quartieri vuoti è interrotto solo dallo scricchiolio dei palazzi rimasti in piedi e dai martelli che battono sulla pietra. Qualcuno infatti è rientrato in città per recuperare il recuperabile: vestiti, scarpe, porte, legno, anche i bulloni. Tutto serve per ripartire. Il governo, bypassando le competenze del Comune, ha ordinato infatti gli espropri forzati delle case danneggiate, anche lievemente. Tremila quelle completamente distrutte, ottomila se si considera quelle con qualche crepa. Verranno acquistate a un prezzo inferiore a quello di mercato, demolite e rivendute all’asta a un prezzo maggiore. Gli abitanti? Si arrangeranno. Alcuni avvocati della Mesopotamia lawyers’ association (Mhd) hanno già aperto numerose pratiche contro gli espropri, ma il successo non è garantito mai in Turchia.

Durante il Ramadan il Comune di Yuksekova ha distribuito tre volte al giorno acqua e una volta il cibo. Ma gli sfollati sono tantissimi; alcuni precipitati nella povertà estrema. I bambini poi iniziano a avere disturbi psichici: sentono un rumore e si buttano a terra gridando “una bomba, mamma, aiuto”. Gli incubi non sono solo di notte. E i blindati di polizia in tutto questo continuano ad assediare le strade, seguendo con il mitra le persone. Tutte potenziali terroriste, secondo Ankara. Anche i giornalisti. O soprattutto loro.

Durante il coprifuoco Nedin Tarfet, reporter di Deha, voce da Yuksekova, è stato arrestato con l’accusa di terrorismo. Il sito web di informazione Yuksekova haber poi è stato oscurato e il suo giovane direttore Erkan Gapraz, 31 anni, ha aggiunto un’altra denuncia alle 23 che già aveva per propaganda terroristica, istigazione all’odio razziale, istigazione ai crimini e così via. “Solo per aver ripreso i bombardamenti”, dice. “Quando è successo negli anni Novanta – racconta al fatto.it Gapraz – ero piccolo, non capivo. Adesso sono adulto e giornalista e quello che sta accadendo mi ferisce. È crudele, disumano, quello che il governo turco sta facendo alla popolazione curda. Ancora oggi, nel 2016. I militari turchi sono arrivati a fare scritte offensive sui muri della città nei confronti delle donne e dei bambini. Questa non è un’operazione anti-terrorismo, questa è follia”. I suoi processi inizieranno a ottobre e, sommate, le sue condanne potrebbero arrivare a 20 anni di carcere. D’altronde è quello che si rischia in Turchia a raccontare la realtà.

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