di Iuri Toffanin

Ho voglia ti togliermi un cruccio. Roba mia, temo, ma devo farlo, per mettermi in sintonia con il mio ruolo di educatore. Viviamo tempi in cui essere bambini è uno sport per veri duri, mentre è uno sport non sempre praticato dagli adulti quello di prestare forme di attenzione adeguate, coerenti e consapevoli. Diciamolo: il livello di distrazione collettiva nei confronti dei minori è piuttosto desolante.

C’è un episodio che ho sul gozzo, da un po’. Quindi oggi perpetrerò un crimine ai danni della Rete e delle sue regole non scritte. Anzi, no, mi correggo: non della Rete, ma dei Social, che così spesso ne incarnano il lato più oscuro. Farò quel che non si deve: tornerò su un argomento morto e sepolto!

Ve ne siete già scordati in molti, eppure pochi mesi fa un bimbo ha dato vita a una parola. Con un’operazione di pura fantasia, ha inventato qualcosa che prima non c’era e che gli serviva per tappare una falla nella realtà, con l’aggiunta della soddisfazione di un riconoscimento ad alti livelli. Una storia bella, per quel che mi riguarda, e che pochi hanno riconosciuto come tale. Voi direte ma senti questo, con tutti i problemi che ci sono guarda a cosa va a perdersi dietro.

Proprio così. Perché a me quel che è accaduto ha fatto l’effetto di una cosa bella violata dalla stupidità collettiva. Per due settimane gli adulti, che non sanno resistere alla tentazione di buttare a terra il giocattolo altrui per ridurlo in pezzi, hanno scippato l’invenzione al suo creatore, ne hanno abusato e l’hanno scaricata sul ciglio della strada. L’importante era romperla, perché quel che conta è neutralizzare le soddisfazioni altrui. Anche quelle di un bambino che sta a guardarci. Sì, perché i bambini continuano a guardarci, come sosteneva De Sica.

Vabbè. I Social si sono dimenticati del petaloso. D’altro canto c’è troppa carne al fuoco, come fai a star dietro a tutto? Dico, l’estate scorsa eravamo tutti Greci, ricordate? Beh, se è andata nel dimenticatoio una nazione, cosa volete che importi un aggettivo?

E come la Grecia, anche il petaloso è appassito. Esibito, maneggiato e buttato. Il popolo dei Social si è divertito e sfogato. In testa a tutti – ho ancora la pelle d’oca – un Presidente del consiglio, figura pubblica da cui sarebbe lecito attendersi sobrietà e che invece, per giorni, compulsivamente, ha ficcato quella parola nei contesti dove meno serviva, al pari di un moccioso che impara a dire “culo” e lo sbraita senza sosta e fuoriluogo, imbarazzando i commensali al pranzo di Natale. Poi, d’un tratto, basta, perché arriva una nuova parola.

Il problema è che i Social sanno essere il contrario dell’arte alchemica, che prendeva il piombo e lo trasformava in oro. Loro no: prendono l’oro e lo trasformano in poltiglia. Prendono la creatività di un bambino e la corrompono, rendendosi protagonisti di una forma impunibile di maltrattamento. Di bambini e di parole.

Ma questi sono i tempi e i Social ne sono lo specchio, con la loro incapacità di volersi dare dei limiti, un contegno, perché il limite è censura e non sia mai! Non ci si riesce a trattenere, nelle azioni e nelle situazioni. Non si ferma nulla, per godersela. Se non dici petaloso, se non lo storpi e non ne abusi, sei fuori. E devi dirlo subito, perché in un attimo sarà sorpassato e avrai perso la tua occasione. Ecco allora uno tsunami di petalosi usati per tutto e per nulla. L’importante è postare. E siccome il troppo stroppia e del ridicolo s’è perso il senso, accade che il popolo dei Social all’improvviso si stufa, perché l’osso è stato spolpato. Il popolo sbuffa, si lamenta che non se ne può più, che il petaloso ha rotto le palle. Povero popolo, così bulimico e incontinente di se stesso. E sta attento che adesso la colpa è del bambino e che deve pure chiedervi scusa.

È andata così, senza vergogna, come sempre. E che sarà mai, direte voi, importa giusto a te. Che poi lui, il bimbo, manco se ne sarà accorto, cosa vuoi, che segua i Social? Lascia perdere e fatti una risata, no?

No. Non stavolta. E allora sapete che faccio? Faccio che oggi, come adulto, mi scuso io, con quel bimbo. Però voglio anche che sappia che quella parola a me è piaciuta e l’ho rispettata. Mi scuso e gli dico “porta pazienza, che vuoi farci, quello degli adulti è un triste mondo, così cinico, annoiato e infantile”. E accetta un consiglio: se un domani tuo figlio dovesse inventare una parola, fate finta di nulla. Tenetevela per voi, sussurratevela in famiglia. E custoditela come fosse un tesoro, un piccolo patrimonio che là fuori non durerebbe che un misero click.

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