Partenza con il freno a mano tirato per il part time agevolato. Il nuovo strumento inaugurato dal governo in aprile per permettere a chi è vicino alla pensione di concordare con l’azienda una riduzione dell’orario ha registrato solo 85 adesioni nel suo primo mese di vita. Il dato è stato reso noto dal presidente Inps Tito Boeri, durante la presentazione della relazione annuale dell’istituto. L’economista ha sospeso il giudizio, spiegando che la partenza è stata senza dubbio “rallentata“, ma i dati “sono ancora da considerarsi poco significativi“. Dal 2 al 21 giugno scorso, su un totale di 238 domande presentate ne sono state appunto accolte 85, respinte 84 mentre ce ne sono in giacenza 69. Il meccanismo, regolato da un decreto del ministero del Lavoro, prevede che il lavoratore possa lavorare tra il 40 e il 60% in meno percependo in busta paga, oltre alla retribuzione per l’attività effettivamente svolta, anche una somma esente dall’Irpef pari ai contributi a carico del datore di lavoro che corrispondono alla parte di stipendio persa.

6 milioni i pensionati sotto i mille euro al mese – Per quanto riguarda le pensioni, dalle tabelle del rapporto annuale emerge che i pensionati gestiti dall’Inps sono oltre 15,6 milioni, per un assegno medio mensile di 1.464,41 euro e un importo complessivo annuo del reddito pensionistico di 275,258 miliardi di euro. La percentuale delle persone che percepisce meno di 1.000 euro al mese su 12 mensilità, pari a quasi 6 milioni, è del 38% sul totale dei pensionati. Sono invece poco più di 1 milione a beneficiare di un assegno superiore a 3mila euro: il 6,5% del totale, di cui 745.238 uomini e 265.140 donne. In 3,4 milioni, il 22%, percepiscono tra i 1.000 e i 1.500 euro al mese, mentre 2,8 milioni, il 18,1%, beneficiano di un importo tra i 1.500 e i 2mila euro. Nella fascia tra i 2mila e i 3mila euro ci sono circa 2,4 milioni di pensionati, pari al 15,4% del totale.

Boeri, favorevole come è noto a meccanismi per consentire la flessibilità dell’età di uscita dal lavoro, ha sottolineato che finora i correttivi alla legge Fornero, a partire dalle sette salvaguardie “appaiono molto costosi e inadeguati”. “Le salvaguardie hanno eroso fino a un sesto dei risparmi conseguiti dalla riforma del 2011 e questo senza contare gli alti costi amministrativi di queste misure sia a livello centrale che sul territorio”. Ora, ha chiosato, “sarebbe paradossale che il confronto in atto fra governo e sindacati sulla flessibilità in uscita si concludesse ancora una volta con interventi estemporanei e parziali“: “Perpetrare il ritardo nel trovare soluzioni sostenibili rischia di alimentare ancora il ricorso a soluzioni inique e onerose, ovvero a soluzioni estemporanee e scarsamente efficaci”.

“Dagli immigrati saldo positivo di 5 miliardi per l’Italia” – Boeri ha poi ribadito che i luoghi comuni sul costo dell’immigrazione per lo Stato sociale sono infondati. Gli immigrati, comunitari o extra-comunitari, non sono “spugne dello stato sociale” ma versano ogni anno 8 miliardi di contributi per riceverne solo 3 in termini di pensioni e altre prestazioni con un saldo netto, passivo per loro ma attivo per noi, di 5 miliardi di euro. Senza contare che fino ad oggi gli immigrati hanno regalato alle casse dello Stato circa 1 punto di Pil di contributi sociali a fronte dei quali non sono state erogate pensioni. Contributi che ogni anno valgono 300 milioni di euro. “Sono ben altre le categorie che ricevono di più, spesso molto di più di quanto abbiano versato al nostro sistema di protezione sociale”, ha aggiunto.

Con il Jobs Act “cambiate le modalità di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro” – Per riguarda il Jobs act, Boeri ha detto che con la riforma “si è davvero finalmente pensato ai giovani e al loro ingresso nel mercato del lavoro. Non c’è dubbio che il 2015 sia stato un anno di grande cambiamento nelle modalità d’ingresso dei giovani nel nostro mercato del lavoro”. In particolare, ha detto, “c’è stato un forte incremento nella quota di assunzioni con contratti a tempo indeterminato ai danni dei contratti a tempo determinato. Il numero dei contratti senza una data di scadenza è aumentato del 62%, addirittura del 76% per i giovani con meno di 30 anni. In questa fascia di età la percentuale di occupati con contratti a tempo determinato o stagionali è scesa dal 37% al 33%”. Tuttavia di “anni positivi come lo scorso “ce ne vorrebbero tanti altri per riassorbire i livelli inaccettabili della disoccupazione giovanile e per capitalizzare sulla stabilizzazione, legando le assunzioni con contratti a tempo indeterminato a investimenti in formazione sul posto di lavoro, in modo da creare lavori più produttivi e meglio retribuiti”.

Il ruolo degli sgravi e il “calo fisiologico” delle assunzioni nel 2016 – Inoltre, ha sottolineato l’economista, non mancano gli interrogativi sulla durata di questi miglioramenti, visto che è stato l’esonero contributivo triennale a giocare un ruolo cruciale nel cambiare la natura delle assunzioni. Non a caso c’è stato un incremento significativo di quelle stabili nel dicembre 2015, l’ultimo mese disponibile per fruire dell’esonero totale. “Altrettanto evidente – ha proseguito Boeri – il calo delle assunzioni con questi contratti nei mesi immediatamente successivi“. Tuttavia, “al netto del ‘calo fisiologico‘ di inizio 2016, il numero di contratti a tempo indeterminato è aumentato di più di mezzo milione nel 2015″ e “sembrano destinati nel 2016 a stabilizzarsi su questi livelli più alti. Difficile che, dopo il grande balzo del 2015, possano crescere ulteriormente quest’anno tenendo conto della lenta ripresa della nostra economia”. Sull’altro fronte, “l’incidenza dei licenziamenti nel 2015 è diminuita del 12% rispetto all’anno precedente, molto di più di quanto ci si sarebbe potuto aspettare alla luce del miglioramento del quadro congiunturale”.

“Part time fittizi per ridurre costo del lavoro” – Tutto considerato, “ci vorrà comunque del tempo per compiere una valutazione approfondita della riforma. è bene tener conto che non sempre la stabilizzazione dei contratti di lavoro è accompagnata da una stabilizzazione nel tempo pieno: quattro lavoratori su 10 assunti con contratti a tempo indeterminato hanno impieghi part-time. E una quota importante degli impieghi full-time (uno su due in Lombardia e tre su quattro in Campania), comportano meno di 312 giorni remunerati direttamente dall’impresa all’anno. Può essere un modo surrettizio per ridurre il costo del lavoro, agendo sugli orari anziché sui salari”. Altro tasto dolente, il boom dei voucher, i buoni con cui dovrebbero essere remunerate solo le prestazioni di lavoro occasionale ma che in molti casi mascherano invece lavoro nero. “Non è da oggi che sottolineiamo le patologie sottese al boom dei voucher per il lavoro accessorio. Solo poco più di un voucher su dieci corrisponde a un secondo lavoro e, in non pochi casi (in 4 casi su 10), rappresenta l’unica fonte di reddito“. Non solo: “Raramente il voucher comporta emersione di lavoro nero”, come sostiene invece il governo che all’inizio di giugno ha varato un decreto per rendere tracciabili i buoni.

 

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